LA COMPLESSITÀ È RICCHEZZA. OLTRE IL MARE DI HAIFA

La complessità è ricchezza. Oltre il mare di Haifa – Oltre il mare di Haifa rispecchia l’innamoramento della giovane autrice, Maria Elisabetta Ranghetti, per Israele e il Medioriente. La scrittura, fresca e comunicativa, ha una particolare qualità ‘visiva’, cinematografica, grazie alla quale la complessità dell’intreccio risulta facile e immediata.
Il romanzo affida ai fulminanti scambi di battute tra i personaggi e alle loro azioni la definizione di caratteri e personalità: Show, don’t tell. Una storia d’amore contrastata appartenente al passato e un mistero da risolvere nel presente tengono alta la tensione fino all’ultima pagina, ma l’originalità sta nell’importanza del contesto storico, geografico, etnico e religioso che determina in gran parte le vicende raccontate. La Storia agisce fatalmente nelle storie degli individui, come una grande onda difficile da arginare. I personaggi, israeliani e palestinesi, ebrei e musulmani, tentano di opporsi o si lasciano trascinare, o ancora, riconoscendo la ricchezza che deriva dalla complessità, tentano strade rischiose con fatica e coraggio. I riferimenti ad avvenimenti storici, luoghi e usanze sono puntuali ed efficaci e danno spessore e concretezza alla trama e ai caratteri.
Nota di merito per il progetto EKT – Edikit, una realtà editoriale giovane e dinamica (ma con alle spalle un’esperienza decennale nel campo della distribuzione e pubblicazione di edizioni musicali) che ha deciso di investire sugli esordienti.
Invito Elisabetta a casa mia e subito nota una menorah, il candelabro ebraico a sette bracci: siamo già in sintonia.
Il tuo libro esprime una grandissima passione per la cultura ebraica. Vuoi parlarmene?
Passione per il Medioriente in generale. Sono stata in Israele per la prima volta dieci anni fa e me ne sono innamorata. Ho cominciato a studiare la lingua e la cultura ebraiche, il giudaismo e la storia geopolitica, e ho capito che è indispensabile allargare la prospettiva al Medioriente per comprendere Israele. Ho viaggiato in Siria, Turchia, Giordania, nel Sinai; ho scoperto questa terra dal punto di vista geografico e sociale, rendendomi conto che accoglie un’umanità molto ricca. La passione è cresciuta nel tempo, con nuovi incontri e nuovi viaggi.
Che idea vorresti comunicare con il tuo romanzo?
La trama è incentrata su due storie d’amore che si intersecano, con diversi scarti temporali e geografici: Israele, Palestina, da alcuni detta West Bank, da altri ‘territori’… sì, perché parlare di questa realtà significa anche accordarsi sui nomi, in quanto israeliani e palestinesi usano nomi diversi per indicare lo stesso luogo. Più che una storia d’amore, però, lo definirei un romanzo storico, proprio perché la Storia incide moltissimo sulle vicende dei personaggi. L’idea che vorrei comunicare è quella della complessità. Il modo in cui i media parlano di ciò che avviene laggiù è molto discutibile, perché appiattisce ogni cosa senza farne emergere la complessità, che si accompagna peraltro a una bellezza incredibile. Si preferisce dare spazio al sensazionalismo: Israele ottiene gli onori della cronaca solo per vicende di guerra o quando c’è un attentato, come se lì non ci fosse nient’altro. Mi piacerebbe che l’Europa, e innanzitutto l’Italia, il mio Paese, iniziassero a vedere questa terra con occhi diversi, a coglierne la complessità e la bellezza.
Un connubio affascinante, complessità e bellezza: come hai cercato di renderlo evidente?
La complessità emerge nel libro al doppio livello della Storia e delle relazioni umane. Spesso quando si parla di Medioriente si tende a schierarsi superficialmente, in modo manicheo, pronti a giudicare chi siano i buoni e chi i cattivi. Non si tiene conto dell’esistenza di dinamiche storiche che hanno origine ben prima della fondazione dello Stato di Israele: due popoli e una terra da dividere. Oltre a una complessità geopolitica esiste una complessità culturale legata alle radici tribali e religiose: sia l’islam che l’ebraismo nascono da tribù e lo scontro-incontro fra questi popoli è legato al loro forte senso d’appartenenza tribale. Anche per questo motivo il fattore religioso è così importante: il credo comune era un collante fra diverse tribù, da entrambe le parti. Abbiamo dunque una terra sola, Israele e la Palestina, per due popoli, quello ebraico e quello arabo, e tre religioni: ebraica, musulmana e cristiana. In più ci sono le minoranze, come i drusi, la cui dottrina combina elementi presi dall’islam, dal giudaismo, dal cristianesimo e persino dall’induismo. Nel libro le galassie del mondo ebraico e di quello musulmano si confrontano e scontrano attraverso diversi personaggi. In questo modo ho cercato di rappresentare non solo la complessità storica, ma anche quella umana, condizionata da un senso di identità molto definito e molto lontano dal nostro modo occidentale di intendere questo concetto. Quanto alla bellezza, non ha bisogno di essere dimostrata: sono terre splendide.
Nella costruzione dei personaggi hai pensato a persone effettivamente incontrate nei tuoi viaggi?
No, ma ho cercato di ricostruire situazioni verosimili. Per esempio mi sono documentata sulla situazione dei matrimoni misti. La narrazione è frutto della mia immaginazione, ma le caratteristiche dei personaggi, israeliani o palestinesi, sono reali. Gli ebrei nati e cresciuti in Israele, non immigrati, si chiamano sabra, che in ebraico vuol dire ‘fico d’India’: si considerano infatti spinosi fuori e dolcissimi dentro, descrizione che ben si adatta al personaggio di Amos. E in effetti, al primo impatto, gli israeliani sembrano un popolo dalle maniere brusche, perché stanno molto sulla difensiva. Quando li si conosce rivelano invece un universo interiore meraviglioso. E sopra a tutto c’è uno sconfinato amore per la propria terra: in questo israeliani e palestinesi si assomigliano. Lottano e sono pronti a dare la vita per la loro terra, certamente, ma noi dimentichiamo troppo spesso che anche loro hanno delle vite ordinarie, come la mia e la tua, e non sono né dei fanatici né degli eroi: fanno la coda in posta, hanno figli che li fanno disperare perché non vanno bene a scuola. Spero di essere riuscita a comunicare la concretezza della vita quotidiana. Nonostante si pensi che in Israele e Palestina tutti siano estremamente religiosi, non è affatto così.
Un mito da sfatare?
Assoltamente sì! Degli israeliani, che conosco meglio, posso dire che sono un popolo molto laico. Dal punto di vista dell’adesione al loro credo sono come gli italiani. C’è sicuramente una frangia intransigente, ma è una minoranza, che magari alza la voce e si fa sentire più degli altri. È una popolazione molto eterogenea, sia dal punto di vista etnico che come posizioni politiche ed esistenziali. Una caratteristica che gli ebrei stessi si riconoscono (è scritto anche nel Talmud, uno dei libri più importanti per il mondo ebraico) è: «due ebrei, tre opinioni», a indicare la varietà di modi di pensare. Ci sono ebrei nati in Israele ed ebrei che arrivano dal Medioriente, dal Nord Africa, dall’America, dall’Europa. Ci sono anche ebrei neri, i falascià, trasferiti «su ali d’aquila», cioè in aereo, dall’Etiopia a Israele a partire dagli anni Ottanta.
Del resto la diaspora è una caratteristica di questo popolo…
Certo, da sempre. Numericamente sono pochi, ma sono sparsi in tutto il mondo. E dopo la fondazione dello Stato di Israele c’è stata l’emigrazione di yemeniti, afghani, iracheni, siriani… La realtà dei palestinesi non è meno complessa e anche loro sono laici, almeno per quanto ho potuto percepire io. L’integralismo è tipico di altre zone del Medioriente, come l’Arabia Saudita. E lo scenario cambia se si parla di West Bank o Gaza o di arabi israeliani, quelli che vivono in Israele con passaporto israeliano. In quest’ultimo caso ci sono ulteriori differenze: un conto è Haifa, un altro Gerusalemme, anche dal punto di vista burocratico. Per esempio a Gerusalemme hanno solo la carta di identità, ad Haifa anche il passaporto. Ecco altri fattori di complessità. Ogni volta che ci vado torno a casa con più domande che risposte. Quest’anno sono stata lì due volte, a gennaio e a luglio.
Com’è la situazione?
L’anno scorso, per la prima volta in dieci anni, ero presente mentre c’era la guerra. Quest’anno la situazione era normale. Per certi versi mi sento più sicura lì che in molti altri posti. Non ho percepito particolari tensioni, non più del solito, almeno. È una regione sempre in movimento e mi piace anche per questo. Gerusalemme è la capitale dei pazzi! Mi dico sempre che chi, come me, si trova bene in Medioriente non ha tutte le rotelle a posto. Si tratta di un’umanità vivace: può capitare di tutto, è l’ombelico del mondo. Io amo moltissimo anche Londra, infatti una parte del romanzo è ambientata lì, ma il contesto mediorientale è molto più scoppiettante. Una cosa che nessuno dice mai è che il problema più grosso di Gerusalemme in realtà è il traffico. Infatti non vedo l’ora che arrivi shabbat, il sabato, giorno di riposo assoluto, così si blocca tutto e finalmente si può tirare un sospiro di sollievo!
Si ferma tutto anche se è una grande città?
Quasi tutto: è una città santa. Tel Aviv invece non si ferma mai. A Gerusalemme, peraltro, c’è una minoranza ultra-ortodossa, anche se, come ho detto, Israele è una terra molto laica. Sarà grande come la Lombardia ma ospita paesaggi diversissimi: verdi a nord, desertici a sud. Certo, bisogna sapersi muovere. Quando viaggi tra West Bank, Palestina e Israele devi sapere che vengono usati diversi nomi per indicare lo stesso luogo a seconda che tu parli con un palestinese o con un israeliano. Hebron o al-Khalil, Jerushalaim o Al Quqs. Dal mio punto di vista non è un problema, ma una ricchezza. La bellezza di questi luoghi è anche nella cultura profondissima e nella storia millenaria. Non dobbiamo dimenticare che il Medioriente è il bacino in cui si è formata anche la nostra cultura. Dal punto di vista storico, fatti accaduti in quei luoghi hanno determinato cambiamenti altrove e spostato equilibri nel bacino del Mediterraneo.
Come si incontrano (e scontrano) i personaggi del tuo libro?
I loro incontri in quella terra intrecciano relazioni i cui effetti si ripercuotono in altri tempi e altri luoghi. Quando decide di recarsi in Israele per sciogliere il mistero del suo passato, la protagonista abita a Londra: pur essendo di origine israeliana, non è mai stata laggiù. Haifa, una città a nord, sul mare, è il punto di incontro fra le vite di diversi personaggi. Tutti si sentono limitati dalla loro terra e vorrebbero fuggire altrove. Come capita più o meno a chiunque di noi, credo. Il fatto è che qui la Storia con la S maiuscola ha un peso enorme nei rapporti umani. Quello che vorrei dire a tutti è: andate a visitare questi luoghi senza lasciarvi intimorire da quello che dicono i media. La complessità è bellezza, oltre che essere una risorsa. C’è anche un appello delle autorità locali ad andarci, perché il turismo, con tutta la paura che si è creata, sta avendo qualche difficoltà. Io mi sento di rischiare di più andando in giro per Milano. Là ci sono stata anche da sola, e da sola posso girare la sera tardi; a Milano, no. Nel mondo arabo, però, in Siria o Giordania, bisogna andare accompagnati. L’ebraico io lo parlo abbastanza, l’arabo proprio no. Ma non è solo un problema di lingua.
Ho visto che su WhatsApp il tuo stato è scritto con caratteri ebraici…
Sì. Si legge Yom Tov.
Che vuol dire?
Letteralmente ‘Giorno buono’, quindi ‘Buona giornata’.
Gallery La complessità è ricchezza. Oltre il mare di Haifa
Le foto della Gallery sono state scattate da Maria Elisabetta Ranghetti durante i suoi viaggi.