SCATTI RIBELLI – PRIMA PARTE

SCATTI RIBELLI – PRIMA PARTE –
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In collaborazione con STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC e con Finestre su Arte, Cinema e Musica.
SCATTI RIBELLI – PRIMA PARTE
La storia dell’uomo è intessuta di gesti di ribellione, che spesso si sono trasformati in motore di cambiamenti epocali e altrettanto spesso sono invece rimasti ignoti e sepolti nell’oblio. Prima ancora della narrazione storica, il gesto ribelle e disobbediente del singolo al potere o alle leggi dello Stato o ai costumi o alle norme della morale comune, caratterizzava i miti dell’antichità e la trama delle tragedie classiche. Il ribelle è il dissidente, il libero pensatore, l’individuo che disobbedisce e oppone il suo rifiuto a un pensiero o a un ordine costituito. Il suo è un atto prima di tutto etico, che nasce dall’adesione a un sistema di valori che reputa superiore a quello che contesta. Esso richiede coraggio e coerenza, perché quello del ribelle è un atto unico, una nota “stonata” che porta l’individuo fuori dal coro. Ma soprattutto il gesto ribelle mette colui che lo fa in opposizione ai suoi simili e al sistema di regole che normalizza il loro vivere comune.
Alcune volte, però, un atto di rifiuto è riuscito a sopravvivere all’immediata repressione, a far riconoscere e accettare a una parte sempre più grande di opinione pubblica la propria giustizia e validità storica e, infine, a scolpirsi nella memoria collettiva come simbolo di eroismo e di coerenza. Nel Novecento alcuni di questi gesti sono stati immortalati o ricostruiti da fotografie famose, che col tempo sono diventate vere e proprie icone. Ne prendiamo in considerazione alcuni.
August Landmesser e Albert Richter: i tedeschi che si rifiutarono di fare il saluto al Führer
Un vecchia foto degli anni Trenta mostra una folla che fa il saluto nazista. Guardandola con attenzione, ci si accorge che in mezzo a quella gente ossequiente che protende il braccio destro c’è un uomo, che con aria di sfida rimane con le braccia incrociate sul petto. Mentre quasi tutti i presenti si sbilanciano in avanti, in una sorta di ideale e fisico ricongiungimento con il leader, l’uomo rimane in posizione eretta e ferma, e ci pare quasi di scorgere sul suo viso l’ombra di un sorriso beffardo.
L’uomo che si rifiuta di fare il saluto nazista si chiama August Landmesser. A quell’epoca aveva 25 anni ed era un operaio presso l’arsenale navale Blohm & Voss di Amburgo. Era entrato nel partito nazista nel 1931, costretto dalla necessità di trovare lavoro. Nel 1935 aveva sposato Irma Eckler, una giovane ebrea di 22 anni. Ma proprio quell’anno vennero promulgate le leggi di Norimberga che, in nome della salvaguardia della razza, impedivano l’unione di sangue tedesco con quello di razze inferiori. Erano proibiti il matrimonio e le relazioni extraconiugali con appartenenti alla razza ebraica (cosa poi estesa ai neri e ai rom). Per questa ragione l’Ufficio del Registro del Comune di Amburgo si rifiutò di riconoscere il matrimonio di August e Irma. L’uomo fu espulso dal partito nazista, con la perdita di tutti i vantaggi che aveva acquisito fino ad allora, ma non abbandonò la donna. Il 13 giugno 1936 ad Amburgo, nel corso del battesimo della nave scuola della marina militare tedesca Horst Wessel, Landmesser era presente, ma al passaggio di Adolf Hitler non alzò il braccio, rifiutandosi di partecipare al gesto collettivo di saluto e deferenza.
Nel 1937, dopo un fallito tentativo di fuga in Danimarca, fu arrestato, accusato di aver infranto la legge, di aver umiliato il popolo tedesco e di aver «disonorato la razza». Dopo un anno venne rilasciato, a condizione di smettere di frequentare Irma. Ma l’uomo tornò dall’amata e nel 1938 vennero arrestati entrambi. August venne rinchiuso nel campo di concentramento di Börgermoor (in Bassa Sassonia), dove rimase prigioniero per due anni. Secondo le ricostruzioni, Irma, detenuta dapprima nel campo di concentramento di Fuhlsbüttel ad Amburgo e successivamente trasferita nei campi femminili di Oranienburg e Ravensbrück, si suppone sia deceduta il 28 aprile del 1942 nell’istituto sanitario di Bernburg, dove i medici nazisti praticavano l’eutanasia sui malati mentali. August era stato rilasciato l’anno prima e mandato ai lavori forzati. Nel 1944, per la carenza di uomini abili alle armi, nonostante i suoi precedenti penali, Landmesser fu arruolato nella Wehrmacht ed assegnato ad un battaglione di disciplina, il 19º Battaglione penale di fanteria della famigerata Strafdivision 999, e fu dichiarato disperso in combattimento nel corso di una missione operativa a Stagno in Croazia. Il suo corpo non fu mai trovato. A livello legale, August e Irma furono dichiarati morti solo nel 1949.
Le due figlie nate dalla relazione furono separate; Ingrid fu affidata alla nonna paterna mentre Irene fu condotta dapprima in un orfanatrofio e poi assegnata a dei parenti.
Nel 1951 il senato di Amburgo decise, a titolo simbolico e come forma di risarcimento morale, di riconoscere il matrimonio tra August Landmesser e Irma Eckler; inoltre le figlie, sopravvissute alla guerra, ricevettero il cognome del padre. Nel 1991 una di esse riconobbe il genitore in questa foto, pubblicata dal quotidiano tedesco Die Zeit. Cominciò a documentarsi e a raccogliere fonti e dati, e nel 1996 pubblicò un libro con la storia della sua famiglia. Senza questa foto, quel gesto sarebbe stato sepolto nell’oblio e nessuno oggi conoscerebbe la storia di August Landmesser.
Landmesser non fu l’unico il cui rifiuto di rendere pubblicamente omaggio a Hitler è arrivato fino a noi documentato da una fotografia: anche il campione tedesco di ciclismo su pista Albert Richter, nel dicembre del 1939, dopo aver vinto una corsa alla Deuschtlandhalle di Berlino, si rifiutò di fare il saluto nazista. Lo possiamo vedere in questa immagine:

Non fu solo in questo modo che il ciclista tedesco manifestò la sua avversione al regime. Richter aveva sempre rifiutato di applicare il simbolo della svastica sulla propria divisa ed inoltre era seguito da un allenatore ebreo, Ernst Berliner, un ex campione di ciclismo.
Dal 1933 al 1939 Richter fu sempre sul podio in tutti i Campionati del mondo a cui prese parte. Allo scoppio della guerra decise di disputare il Grand Prix di Berlino e subito dopo di scappare in Svizzera, perché non voleva arruolarsi e combattere. Berliner gli sconsigliò di correre quel rischio, ma Albert voleva battere ancora una volta i suoi colleghi con la svastica, proprio davanti al pubblico della capitale. A Berlino il 9 dicembre Richter vinse la sua ultima gara, poi tornò a Colonia, sua città natale, raccolse il denaro di alcuni amici ebrei, per portarlo al sicuro in Svizzera, infine prese il primo treno insieme alla sua bicicletta. Al confine fu fermato e ucciso dalla polizia nazista. Alla sua morte, venne avviata immediatamente la damnatio memoriae: fu diramato un comunicato in cui si diceva che Richter si era impiccato per la vergogna, dopo essere stato fermato dalla polizia per contrabbando di denaro nascosto in una bicicletta. Nei giorni seguenti il suo nome fu cancellato da tutte le classifiche e fu grattato via da tutte le targhe e le lapidi scolpite in suo onore.
A ricordarsi bene del suo amico e allievo era però Ernst Berliner. L’allenatore ebreo, una volta fuggito in America, incominciò una lunghissima battaglia per riportare alla luce la storia di Richter, per far sì che non venisse gettato nell’oblio uno degli esempi più limpidi di disobbedienza e di rifiuto della follia nazista. Potè farlo anche grazie all’aiuto di questa fotografia.
Rosa Parks – La donna che si rifiutò di cedere il suo posto
L’atto di ribellione di una piccola donna come Rosa Parks innescò un grande movimento di protesta rivoluzionario nell’America degli anni Cinquanta.
Rosa, che fa la sarta in un grande magazzino di Montgomery, in Alabama, il primo dicembre del 1955 sta tornando a casa in autobus. Nella vettura occupa un posto nel settore dei posti comuni, dietro alle file dei posti destinati ai bianchi (all’epoca all’interno degli autobus di Montgomery vi erano 3 settori: davanti il settore solo per i bianchi, in mezzo il settore dei posti comuni, utilizzabili da entrambi ma con precedenza per i bianchi, e in fondo il settore riservato solo agli afroamericani). Dopo tre fermate, l’autista le chiede di alzarsi e spostarsi in fondo all’automezzo per cedere il posto ad un passeggero bianco salito dopo di lei. La donna pacatamente si rifiuta, rimanendo ferma nel suo proposito anche all’arrivo dei poliziotti, chiamati dal conducente. Rosa Parks viene arrestata per condotta impropria e per aver violato le norme cittadine che obbligano i neri a cedere il proprio posto ai bianchi nel settore comune, quando in quello a loro riservato non ve ne sono più di disponibili.
Subito scoppiano le prime reazioni, mentre nella notte una cinquantina di leader della comunità afroamericana, guidati dal pastore battista e leader del Movimento per i diritti civili Martin Luther King, si riuniscono per decidere la linea di azione.
Così il giorno successivo comincia il boicottaggio dei mezzi pubblici di Montgomery, protesta che dura per 382 giorni. King viene arrestato insieme ad altri 90 afroamericani con l’accusa di intralcio a un servizio pubblico, ma ricorre in appello e vince. Nel frattempo dozzine di autobus rimangono ferme per mesi, fino a quando non viene rimossa la legge che legalizza la segregazione. Questi eventi danno inizio a numerose altre proteste in molte parti del paese.
Nel 1956 il caso Parks arriva alla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, che decreta, all’unanimità, incostituzionale la segregazione sugli autobus pubblici dell’Alabama. Da quel momento, Rosa Parks diventa un’icona del movimento per i diritti civili. Da allora è conosciuta come The Mother of the Civil Rights Movement.
Questa celebre foto è stata scattata dopo la conclusione della protesta, su un autobus che non ha più la vergognosa suddivisione dei posti a sedere.

Thích Quảng Đức – The Burning Monk
È il 10 giugno 1963 nella città di Saigon, Vietnam del Sud. Intorno alle nove di mattina, un’auto azzurra avanza lentamente nella strada, seguita da centinaia di monaci e monache buddhisti che marciano insieme. Recano cartelli, scritti in vietnamita e in inglese, che inneggiano all’uguaglianza religiosa. Ad un incrocio, l’auto si ferma. Un cuscino da meditazione viene posato sull’asfalto e un monaco vi si siede nella posizione del loto. Medita e recita il mantra del Buddha Amitābha, sgranando i grani di legno dell’Akṣamālā. Dopo un po’ si avvicina un altro monaco. Reca una tanica piena di benzina. La solleva sul capo del suo confratello e comincia a versargliela su tutto il corpo. Passano ancora lunghi secondi. Poi il monaco seduto avvampa in una grande fiamma mossa dal vento, un enorme fiore di loto dai lunghi petali di fuoco. Nel cuore del rogo, l’uomo non si scompone. Rimane fermo, in silenzio, continua la meditazione mentre la sua carne brucia, diffondendo un odore acre tutto intorno. Il cerchio degli altri monaci e della gente accorsa è scosso, la polizia cerca di farli allontanare, ma inutilmente. Molti piangono, altri pregano; perfino alcuni poliziotti non sanno trattenere lo sgomento e la commozione. Le lingue di fuoco ondeggiano inquiete; al di sotto un corpo brucia, diviene nero, oscilla leggermente avanti e indietro fino a cadere, ormai consumato dalle fiamme. Al tramonto di quella giornata migliaia di abitanti di Saigon dichiareranno di aver visto in cielo l’immagine di Buddha piangente.
Diem era salito al potere nel 1955, appoggiato dal governo statunitense, che vedeva nel Vietnam guidato da un cattolico un presidio contro il diffondersi del comunismo. Instaurata una costituzione autoritaria di tipo presidenziale, aveva ben presto introdotto una serie di politiche volte a favorire il Cattolicesimo a discapito del Buddhismo e delle altre minoranze religiose. In tutto il Vietnam del Sud rurale si susseguirono assalti ai monasteri buddhisti, con devastazioni, senza che la polizia intervenisse o identificasse i responsabili. La bandiera buddhista fu vietata in tutto il paese, mentre a tutte le manifestazioni ufficiali sventolava la bandiera vaticana assieme a quella nazionale. Le pacifiche proteste delle organizzazioni buddiste furono represse brutalmente. Il bilancio delle manifestazioni del maggio 1963 fu di numerosi templi distrutti, villaggi interi evacuati e devastati e un totale di nove vittime. I morti lasciati sul terreno dalle forze di polizia furono goffamente attribuiti ai Viet Cong, esasperando così gli animi e ponendo gli Stati Uniti in una posizione insostenibile sia a livello internazionale, sia rispetto alla propria opinione pubblica. Lo sdegno per l’aggressione subita spinse i buddhisti a ricorrere a gesti estremi e clamorosi che conquistarono l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. Così si arrivò, l’11 giugno 1963, all’auto-immolazione, nel pieno centro di Saigon, di Thich Quang Duc, all’epoca il maggior esponente della comunità buddhista di Saigon. Successivamente furono distribuite alla stampa internazionale le sue ultime volontà che contenevano un rispettoso appello a Diem affinché manifestasse carità e compassione verso tutte le religioni.
Questo gesto ebbe enormi ripercussioni sull’opinione pubblica mondiale, statunitense in particolare, e impressionò notevolmente il presidente Kennedy, che mise alle strette Diem affinché esaudisse la richiesta dei buddhisti di poter praticare la propria religione alla stregua dei cattolici. Il dittatore tuttavia non accolse l’invito e dichiarò la legge marziale, continuando la sua azione di propaganda e di repressione violenta, fino a che, il primo novembre, fu assassinato dai suoi stessi ufficiali nel corso di un colpo di stato preparato con il concorso dei servizi segreti americani.
Malgrado ciò, dal 1963 al 1966 furono 33 le persone a immolarsi nel fuoco in Vietnam del Sud.
Nonostante il giorno prima del rogo di Quang Duc alcuni rappresentanti della comunità buddhista di Saigon avessero avvisato la stampa americana che l’indomani sarebbe accaduto qualcosa nell’incrocio stradale davanti all’ambasciata Cambogiana, solo alcuni giornalisti erano presenti all’evento. Tra essi, Malcolm Browne dell’Associated Press. Le sue foto furono pubblicate dai giornali di tutto il mondo e si dice che abbiano contribuito ad accelerare la caduta del regime di Diem. Kennedy in particolare era rimasto molto colpito. “Nessuna fotografia nella storia del giornalismo ha mai generato le stesse emozioni di questa, nel mondo”, disse. Questa foto valse a Browne il premio World Press Photo of the Year per il 1963. Ci sono foto che documentano la storia e contribuiscono a ricostruirla e a raccontarla. Questa è una di quelle che è riuscita anche a cambiarne il corso.
Il cuore di Quang Duc è conservato nella pagoda Thien Mu, nella città di Huế e alcuni templi e monasteri gli sono stati dedicati. Il suo gesto di silenziosa protesta è stato emulato numerose volte, in varie parti del mondo. Lo stesso Jan Palach, dandosi fuoco in Piazza San Vencenslao per protestare contro la repressione sovietica della Primavera di Praga, dichiarò di ispirarsi al monaco vietnamita. Ancora nel giugno 2012 alcuni monaci tibetani si sono dati fuoco per protestare contro il governo cinese.
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