Il paesaggio classico del Seicento. Lorrain e Poussin

Il paesaggio classico del Seicento. Lorrain e Poussin –
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In collaborazione con STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC e con Finestre su Arte, Cinema e Musica.
Il paesaggio classico del Seicento. Lorrain e Poussin
Natura morta e paesaggio, che si affermano come generi autonomi nel Seicento, nascono dalla volontà di rendere attuali e di collocare in maniera credibile l’evento storico narrato, intendendo per tale quello appartenente non solo alla storia laica, ma anche religiosa.
Se in passato il paesaggio veniva considerato lo sfondo scenografico sul quale proiettare la rappresentazione di personaggi divini o umani, nel XVII secolo esso diviene un genere pittorico autonomo e codificato. Questo paesaggio moderno, non subordinato ad altro soggetto, nasce a Roma, soprattutto ad opera di artisti stranieri, come ad esempio Mattheus e Paul Bril, Jan Bruegel il Giovane, Sebastiaen Vrancx e il tedesco Adam Elsheimer, ammaliati dal fascino classico della capitale e dalla luce delle sue campagne circostanti.
È tradizione a questo punto distinguere due filoni fondamentali: quello del paesaggio ideale e classico, che dall’italiano Annibale Carracci porta al Domenichino e ai francesi Nicolas Poussin e Claude Lorrain, e quello del paesaggio “preromantico”, colto soprattutto nelle opere di Salvator Rosa.

Il paesaggio ideale è quello che adotta i criteri compositivi classici di equilibrio e armonia. Il paesaggio naturale, osservato en plein air, viene poi filtrato e rielaborato secondo un concetto di bellezza ideale, identificata nei parametri classici di ordine e di equilibrata sintesi.
Figura chiave nella nascita del paesaggio ideale è il bolognese Annibale Carracci, presente a Roma dal 1595. Nelle due lunette eseguite per la cappella del palazzo Aldobrandini (soprattutto ne La fuga in Egitto) assistiamo a una composizione la cui solennità e armonia tra paesaggio e figure erano sconosciute ai fiamminghi di stanza a Roma.

La lunetta con la Fuga in Egitto viene considerata il primo esempio di paesaggio ideale, in cui ogni singolo elemento naturale viene inserito secondo un criterio compositivo calibrato, finalizzato alla ricerca dell’equilibrio formale e del bello classico. Il paesaggio naturale viene, cioè, reinventato e ricostruito idealmente, pur mantenendo una verità di visione, per la luce, il colore e gli effetti atmosferici.
Claude Gellée, conosciuto come Claude Lorrain o Il Lorenese, a Roma dal 1625, dedicherà la sua intera attività alla rappresentazione della campagna romana (si narra che passasse intere giornate nei campi a disegnare), colta nel mutare delle stagioni e nelle variazioni della luce naturale attraverso disegni dal vero, poi rielaborati in studio secondo i principi del modello letterario classico, in particolare quello evocato dai poeti Virgilio, Orazio e Ovidio, che esaltavano la vita pastorale e bucolica, quell’arcadia felice caratterizzata dall’armonia assoluta tra uomo e natura, ormai irrimediabilmente perduta. Un paesaggio idilliaco senza tempo, la cui rievocazione, allora letteraria ed ora pittorica, si accompagna sempre a un sentimento di struggente nostalgia per una condizione appartenente al passato.

Il ritorno all’antichità classica, nel Seicento, significa rifarsi a quegli ideali di equilibrio, di ordine e di misura che sono l’essenza stessa dell’idea di “classico”. Il “vero” e il “naturale”, pur rimanendo i presupposti della rappresentazione, per i classicisti devono essere subordinati al filtro dell’idea, che consiste nella capacità dell’artista di conferire perfezione a ciò che è imperfetto, ordine al caos, bellezza al deforme. Il processo di imitazione idealizzante diviene il cardine della rappresentazione artistica; il fine di quest’ultima è quello di selezionare il meglio della natura, comunicando un senso di bellezza e di delizia meglio di quanto possa fare la natura stessa.
L’elemento più significativo delle opere di Lorrain è lo studio dei cambiamenti cromatici legati al variare incessante del tempo, delle ore del giorno come delle stagioni. La luce diviene soggetto del quadro, quella limpida dell’alba o quella calda del tramonto. Una luce che parte dall’osservazione della realtà, ma che è poi filtrata dall’artista, conferendo una valenza psicologica alla rappresentazione della natura.

La struttura del paesaggio arcadico segue uno schema regolare. Ai due lati ci sono masse scure di alberi e rocce o templi come quinte di scena che lasciano libero il centro. Perfino le figure, che sono completamente fuse col paesaggio, talvolta sono collocate di fianco; lo squarcio di cielo centrale e il profondo orizzonte in lontananza occupano il posto d’onore.
Il genio specifico di Claude Lorrain si esprime proprio qui, nella luce che dall’orizzonte emana verso lo spettatore, riflessa nell’acqua, sulla pietra e sulle fronde dei grandi alberi che rivestono d’ombra il primo piano, una luce che regge e governa l’intera composizione.

La campagna romana è oggetto di studio anche per il francese Nicolas Poussin, che probabilmente è l’artista che spinge al massimo grado l’idealismo della pittura di paesaggio, fino a conferire a quest’ultimo la stessa dignità propri della pittura di storia. Egli sottopone la natura a un rigoroso filtro intellettuale e formale, per attingere quell’armonia e quel decoro che per Giovan Pietro Bellori, scrittore, storico dell’arte nonché amico del pittore, costituiscono le caratteristiche della bellezza ideale. I suoi paesaggi trascendono il dato naturale per diventare idea, oggetto di solenne contemplazione, immagine della ragione, trasposizione in termini filosofici della vita interiore dell’uomo.

Pertanto quello di Poussin è un paesaggio artificiale, ricostruito nei suoi rapporti geometrici, nella nitida e rigorosa composizione, negli equilibri formali esaltati da una luce fredda e pura e dai colori cristallini, un paesaggio nel quale l’artista cerca l’ordine razionale della natura e del creato.
La specificità intellettuale di Poussin, pittore-filosofo, sta in gran misura nella sua adesione ai principi cartesiani.

“L’aspirazione alla riduzione del molteplice alle strutture formali semplici che si nascondono dietro l’apparente diversità materiale”, diviene in Poussin cardine del suo classicismo razionale che si oppone al classicismo erudito e mitologico degli italiani. Un paesaggio della mente, dunque, placido e solenne, a tratti malinconico e compassato e tuttavia sontuoso e insinuante, ricettacolo delle passioni e degli egoismi, dei tormenti e delle vendette e di tutto ciò che si agita nel cuore dell’uomo.

Un paesaggio che risente di un poderoso senso del tragico e che è rievocazione di un’armonia, ormai perduta, fra uomo e natura, “nostalgia di un tempo perfetto che prescinde dalle leggi della natura e della storia, un tempo in cui spiriti umani e transumani vivono drammi e tragedie (non piacevolezze, sia chiaro: non solo quelle) in accordo con la placida compostezza dell’universo, come ingranaggi di una macchina che non lascia un solo rudere, un solo albero o un solo gesto alla casualità” (F. Caroli, Il volto e l’anima della natura).

Non sarà più possibile concepire una visione della natura prescindendo dal principio imposto da Poussin, il quale si potrebbe riassumere in questo modo: l’atto della visione è un processo di astrazione, che si allontana dalla natura, la quale viene pertanto costruita ex novo dal pensiero e dall’immaginazione.

Questi paesaggi arcadici, benché solenni e razionalmente costruiti, respirano, come si diceva, anche un poderoso senso del tragico. Nel profondo della natura, nelle pieghe di composizioni caratterizzate da nobile semplicità e quieta grandezza, si nasconde, sommesso e misterioso, il sentimento della morte e della caducità della vita, come possiamo osservare nel celebre quadro I pastori d’Arcadia (nelle due versioni, quella di Chatsworth House del 1627 e quella del Louvre del 1640 circa), dove vediamo una donna e dei pastori intenti a decifrare l’epigrafe scolpita sulla pietra di una tomba: “Et in Arcadia ego”. Questo motto enigmatico, che dava il titolo anche a un quadro del Guercino, sembra risalire allo scrittore latino Ausonio, che lo riferiva alla tomba di Terenzio. La traduzione di tale frase, ipotizzata da Panofskij (E. Panofskij, Et in Arcadia ego: Poussin e la tradizione elegiaca, in ID., Il significato delle arti visive, Torino, Einaudi, 1962) è duplice:
“io, morte, sono anche in Arcadia”,
“anch’io (uomo sepolto nella tomba) vissi in Arcadia”.
Nella prima versione del quadro compariva anche un teschio, posato sul sepolcro, così come nell’opera del Guercino. Comunque interpretata, l’iscrizione è un memento mori, legato al concetto della condizione precaria e transitoria della vita umana.

Innumerevoli sono le interpretazioni letterarie date a quest’opera, spesso fantastiche e improbabili, alla ricerca di significati ermetici o esoterici, a cominciare da quella di Michael Baigent, Richard Leigh, Henry Lincoln, nel best seller storico Il Santo Graal, la cui tesi è ripresa dal Codice da Vinci di Dan Brown. Alcune di queste ricostruzioni tirano in ballo il fantomatico Priorato di Sion e si rifanno alla circostanza che Poussin avesse conosciuto a Roma il filosofo-scienziato gesuita Athanasius Kirchner, dal quale aveva potuto apprendere i linguaggi cifrati e le basi dell’occultismo.

Soprattutto negli ultimi anni della vita del pittore, l’idillio bucolico e solenne dei suoi paesaggi si tinge di una cupa atmosfera drammatica. Nel suo Paesaggio con Piramo e Tisbe, il contesto rappresentato è quello turbinoso di una tempesta, dove lo sconvolgimento della natura ben si armonizza con il dramma delle passioni umane rappresentate. L’artista raffigura Tisbe nel momento in cui scopre il cadavere di Piramo, il quale, avendola pensata dilaniata da un leone, a sua volta si era ucciso. C’è anche un tragico destino a governare la vita dell’uomo. Per questo alcuni studiosi ritengono che Poussin non appartenga solamente alla corrente razionalista cartesiana, ma anche alla famiglia dei grandi tragici francesi del XVII secolo.

Una delle tele che compongono la serie de Le quattro stagioni, commissionata dal nipote del Cardinale di Richelieu e considerata una sorta di testamento spirituale dell’artista, si intitola L’Inverno o Il Diluvio. In un abbinamento del tutto inedito, tale stagione viene associata all’episodio biblico del Diluvio universale. La rappresentazione è apocalittica, terrificante, uno scatenarsi senza controllo degli elementi della natura: un ideale castigo divino per un’umanità corrotta dal peccato.
Anche in quest’opera enigmatica si ritiene siano presenti simbolismi esoterici e misterici intesi in chiave cristiana, derivanti dall’influenza del gesuitico padre Kircher.
Se la composizione conserva la misura e l’equilibrio formale dell’impianto classico, si sente uno spirito diverso aleggiare in questa natura fosca e implacabile, dove la tragedia non si nasconde compostamente nell’epigrafe di un austero monumento sepolcrale, ma irrompe con violenza nella scena, scuotendola da cima a fondo.
La penombra plumbea, la carcassa d’albero, l’asperità delle rocce cupe, la consistenza metallica dell’acqua sono tutti segnali di una nuova sensibilità, che pone l’uomo in un rapporto diverso nei confronti della natura, che investe quest’ultima dei tumulti e delle angosce che albergano nell’animo dell’uomo.
