Olafur Eliasson, In Real Life

Olafur Eliasson, In Real Life – Fino all’11 gennaio 2020, la Tate Modern di Londra ospita la personale di Olafur Eliasson, dal titolo In Real Life.
La mostra è organizzata dalla Tate Modern in collaborazione con il Guggenheim Museum di Bilbao; il curatore è Mark Godfrey, assistito da Emma Lewis, dell’International Art Tate Modern.
La mostra raccoglie più di 40 opere eseguite tra il 1990 ed oggi dall’artista di origini danesi Olafur Eliasson.
Nato nel 1967, Eliasson è uno degli artisti più noti del panorama artistico contemporaneo e anche uno dei più complessi, perchè unisce a una efficacissima e a tratti struggente immediatezza di fruizione, una straordinaria profondità di contenuti, non solo artistici. Affascinato dai fenomeni e dagli elementi della natura, le sue straordinarie installazioni hanno accolto milioni di persone nel loro grembo accogliente e disturbante assieme, attraverso esperienze sinestiche e immersive che non si lasciano facilmente dimenticare. Basti pensare a uno dei suoi lavori più noti, The weather project del 2003, installazione che trasformava la gigantesca Turbine Hall della Tate Modern di Londra in un infinito, emozionante tramonto grazie a un cupo sole pomeridiano fatto di 200 lampade gialle, schermi, specchi e nebbia diffusi in tutto lo spazio. Due milioni di persone si sono adagiate a terra a contemplare questo incredibile ambiente che, nella sua evidente ed esibita artificiosità, era potente e avvolgente come un vero fenomeno naturale, e faceva sì che lo spettatore si appropriasse del senso primario dell’opera.
Volendone tracciare un ipotetico albero genealogico, Eliasson riunisce in sé le tempeste di Turner, le impressioni del levar del sole di Monet e la visione scientifica della percezione che inonda di luce la Grande Jatte di Seurat, le inquietudini del Romanticismo, le Avanguardie, la visione sociologica di Beuys, il respiro spaziale della Land Art e la lezione dei maestri del minimalismo contemporaneo, fatta di percezione della luce e fruizione dello spazio.
E, come dice lui stesso, “quando il linguaggio artistico mette al proprio centro lo spazio e i suoi utenti può facilmente interagire con l’architettura, la scienza, il design. Può anche sollevare questioni sociali, politiche, estetiche ed etiche: qualsiasi ambito della realtà diventa un potenziale terreno da esplorare”.
Un impegno globale che va ben oltre la sola pratica artistica per entrare nella vita reale con iniziative efficaci e nobili come la Fondazione Little Sun, progetto che dal 2012 porta le sue lampade a energia solare alle scuole e alle famiglie del Ruanda e ovunque manchi le luce necessaria per studiare e per vivere.
L’arte di Eliasson deriva da tre settori di interesse particolarmente importanti, ovvero il suo coinvolgimento nella conservazione del patrimonio naturale, che è sicuramente accresciuto dalla sua lunga permanenza in Islanda; le sue ricerche nell’ambito della geometria; e le sue continue investigazioni che si accentrano su come si percepisce, quali sensazioni si provano e come si plasma il mondo che ci circonda.
Eliasson mette l’esperienza al centro della sua arte, nella speranza che i suoi spettatori – fruitori possano, grazie ad essa, diventare più consapevoli dei propri sensi, e aggiungere significato alle opere apportando le proprie associazioni d’idee ed i propri ricordi che si vanno a sommare alle esperienze personali dell’artista.
Alcune installazioni, inoltre, hanno il precipuo scopo di rendere i visitatori più consapevoli delle persone che li circondano, con le quali formano una comunità temporanea.
Per Eliasson, questa consapevolezza di sé e degli altri auto-incrementata crea un nuovo senso di responsabilità. Da ultimo, egli crede che l’arte possa avere un forte impatto sul mondo al di fuori del museo.
Per visitare la mostra, non è necessario seguire un percorso ‘obbligatorio’; la linea gialla disegnata sulla mappa è solo un suggerimento, ma la nostra visita virtuale si basa sulle indicazioni dei curatori.
La prima sala è la cosiddetta Model Room (2003), in cui si nota come le conoscenze specifiche dell’artista nell’ambito della geometria si sono fuse meravigliosamente con l’arte, creando effetti di luce, volumi, contrasti di asperità o di forme sinuose che lasciano stupefatti.
Si prosegue in un’ampia sala dominata dalle Wavemachines (1995), vasche in cui l’acqua scorre e s’increspa senza soluzione di continuità. Attorno alla sala altre installazioni ricordano le origini dell’artista, ma la più emotivamente avvincente è Rain window (1999), una finestra su cui scorre la pioggia incessante, che ci catapulta in un territorio in cui il soffermarsi davanti a una finestra nelle interminabili giornate di pioggia è parte integrante della quotidianità.
Attraverso un buio corridoio si sta in fila per arrivare alla sala che ospita Beauty, un’installazione del 1993 in cui una piattaforma è illuminata da luci multicolori che attraversano una pioggerellina lenta e uniforme, sotto la quale i visitatori si soffermano per entrare in contatto anche fisicamente con l’atmosfera tipica dei Paesi nordici.
Si esce facendo il percorso inverso, si prosegue nel corridoio di prima, dove a un certo punto, inaspettatamente, attraverso un riquadro si vedono le facce delle persone che si fermano a guardare The seeing space (2015), uno specchio deformante appeso nella seconda sala che invita chi ci si ferma davanti a mimare espressioni di tutti i tipi.
Il corridoio si allarga in una saletta in cui si può entrare pochi alla volta, dove un’assistente spiega che al di là di una porta chiusa troveremo Your blind passenger (2010), un percorso di 16 metri nella nebbia.
L’esperienza è davvero superiore ad ogni aspettativa. Appena si entra, la nebbia è sottile, si procede in fila indiana e quindi si possono vedere le persone davanti a noi, un po’ alla volta resta il contatto visivo solo con chi ci precede e all’improvviso ecco che si alza la vera nebbia nordica, bianca e accecante, e ci troviamo soli, non c’è più nessuno davanti a noi, apparentemente. Per i metri restanti si procede tentoni, molto molto lentamente, poi, poco prima della porta d’uscita si ricomincia a intravedere la persona davanti a noi, e si capisce cosa deve provare chi quella nebbia deve affrontarla per parecchi giorni l’anno.
Quando si esce, ci si deve confrontare con un’altra esperienza, l’attraversamento di un tunnel leggermente sopraelevato con le pareti circondate da specchi disposti in modo da creare un effetto-spirale (The spiral view, 2002).
L’area finale della mostra, The espanded studio, è dedicata alle esperienze dell’artista maturate nel suo studio di Berlino, fondato nel 1995.
In quello studio d’architettura, chiamato Studio Other Spaces, insieme al suo vecchio amico e collaboratore Sebastian Behmann, Eliasson ha dato vita a progetti sull’energia rinnovabile (Little Sun), sul cambio climatico (Ice Watch) e sulle migrazioni (Green light – An artist workshop).
I collaboratori dello studio cucinavano il pranzo a turno; poi, nel 2005, Oliasson creò una vera e propria cucina e ingaggiò dei cuochi che cucinassero menu vegetariani a base di ingredienti locali, di stagione e organici.
Queste ricette e questi sapori sono stati ripresi dalla cucina del Terrace Bar della Tate Modern, e i suoi pasti vengono serviti in una saletta con tavoli lunghi, quasi familiari, che riflettono l’atmosfera dello studio di Eliasson, persino negli oggetti e nelle lampade che provengono anch’essi dal suo studio.
Una sosta al Terrace Bar è indubbiamente una degna conclusione della visita alla mostra, prima, ovviamente, della tradizionale sosta allo shop dedicato, con molta oggettistica ispirata ai lavori di Studio Other Spaces.
Quando si esce, si ha la netta sensazione che le parole dell’artista siano diventate parte di noi: “L’Arte non è estetica vuota, ma porta con sé il potere collettivo di co-produrre la realtà e di trasformare il pensiero e la speranza in azione. Il potere di cambiare il mondo.”
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Olafur Eliasson
In Real Life
Tate Modern, Londra
Fino al 5 gennaio 2020