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Nel segno del Pinot Nero

Nel segno del Pinot NeroTesti di Alessandro Franceschini, wine writer AIS Lombardia

A poca distanza dalla capitale meneghina, l’Oltrepò Pavese è uno dei tanti luoghi lombardi familiari a chi è appassionato di vino e di ottima cucina tradizionale, così come a chi desidera trascorrere sereni week-end fuori dalla frenetica vita milanese.
Il connubio esistente tra questo triangolo, posizionato a sud della regione, confinante da una parte con il Piemonte e dall’altra con l’Emilia, e la coltivazione della vite, è spesso legato ad istantanee di varia natura: parole come “rusticità”, “vino sfuso”, vino che “buscia”, la Bonarda, Gianni Brera possono essere accostate ai vini di questa terra con facilità. Tutto corretto, ma non sufficiente. Se è vero che un territorio deve portare in sé il marchio della propria tradizione per poter progettare il proprio futuro, allora il Pinot Nero non può non entrare di diritto nella storia di questa propaggine meridionale della Lombardia.


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Se la parte orientale, quella che gravita intorno al piccolo comune di Rovescala, è storicamente legata alla Croatina, quindi a uno dei vini portabandiera di questa terra, vale a dire la Bonarda, quella occidentale ha nella sua vicinanza con il Piemonte, e quindi nella Barbera, uno dei suoi emblemi più significativi. Non dimenticando aree storicamente vocate all’allevamento di uve a bacca bianca come Volpara per il moscato o ancora, nella parte centrale, comuni come Oliva Gessi, Montalto Pavese e Calvignano per il Riesling, quando, invece, si affronta l’”affaire il Pinot Nero” ci si inerpica su una montagna da scalare ricca di insidie e contraddizioni. Una sfida, da sempre. Come, d’altronde, è giusto che sia: il pinot nero è un’uva che, come poche al mondo, sa leggere il territorio nel quale si trova a doversi adattare. In Oltrepò Pavese il Pinot Nero è presente praticamente ovunque, ma non dappertutto riesce a trovare l’habitat ideale per dare il meglio di sé. Grandi vini, leggendari, così come bottiglie anonime o semplicemente banali: tutto ed il suo contrario ci si può dunque attendere quando ci troviamo di fronte a un Pinot Nero.

Un dato, certamente, appare incontrovertibile, a testimonianza del profondo legame tra questo nobile vitigno e l’Oltrepò Pavese: circa 3000 ettari vitati dicono che ci troviamo di fronte al giardino coltivato a Pinot Nero più esteso della penisola (secondo al mondo dopo la Borgogna). Un mare di Pinot Nero che ha cominciato a insediarsi intorno alla seconda metà del XIX secolo e che ha visto i primi impianti significativi a Rocca de’ Giorgi nel 1865 ad opera del Conte Carlo Giorgi di Vistarino. Qui è nato quello che un tempo veniva chiamato lo “Champagne Italiano”. Da quel momento nomi piemontesi e oltrepadani cominciano a intrecciarsi all’interno di un percorso comune che vede questa terra diventare il grande serbatoio per le produzioni industriali di imprenditori come Carlo Gancia e Pietro Riccadonna. “Gran Spumante SVIC”, dove l’acronimo sta per Società Vinicola Italiana di Casteggio, è la scritta che troneggia nel 1912 su un cartello pubblicitario posto accanto alla statua della Libertà a New York, primo punto di approdo per molti italiani che nei primi anni dello scorso secolo emigravano inseguendo il sogno americano. La produzione di metodo champenois vede emergere aziende come quella di Angelo Ballabio a Casteggio o la Cantina Sociale La Versa che si impongono come le realtà italiane più importanti nella produzione di spumanti a rifermentazione in bottiglia. Il Pinot Nero rappresenta l’ossatura di questa cavalcata che non sembrava fermarsi più.
Se il Pinot Nero, dunque, storicamente, ha trovato in Oltrepò l’habitat ideale per la produzione di basi spumantistiche utilizzate qui come in Piemonte, ma non solo, è altresì vero che la vinificazione in rosso si è ritagliata in un periodo più recente un suo spazio ricco di spunti, ma non privo di contraddizioni ed equivoci. L’errore principale che chiunque può commettere accostandosi sia alle versioni metodo classico, che ancor più a quelle rosse, è il confronto con Pinot Nero allevati altrove, sia in Italia che, soprattutto, in Francia. È un confronto che spesso si rivela non solo meramente didattico, quanto in realtà fuorviante. Errori ne sono stati fatti, specie in epoche in cui non era certo la qualità, quanto la quantità, da vendere il più delle volte a terzi, a essere l’obiettivo principale: non da ultimo, non era certo a disposizione tutto il bagaglio di conoscenze e studi che, invece, negli ultimi anni hanno consentito ai moderni vignaioli di prendere coscienza delle peculiarità. Tra questi, anche un fitto lavoro di zonazione e un elenco dettagliato dei cloni più adatti alla vinificazione in bianco per il metodo classico piuttosto che a quella in rosso. Sono state individuate sei unità territoriali dopo un lavoro durato 10 anni, partito nel 1999, ad opera delle Università di Milano e Piacenza (il volume “Guida all’utilizzo della Denominazione di origine Pinot nero in Oltrepò Pavese” edito dal Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese a fine 2008 riporta in dettaglio tutto il lavoro svolto a questo riguardo). Ma non è solo una questione squisitamente tecnica: per chi è animato da curiosità, magari durante una delle tante visite che si possono effettuare presso le numerose aziende agricole oltrepadane che certo non mancano di ospitalità e cortesia, è possibile imbattersi in campioni di Pinot Nero, magari con qualche anno sulle spalle, in grado di stupire quanto a complessità e tenuta nel tempo.