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Nel nostro futuro: I.A. e medicina digitale

Nel nostro futuro: I.A. e medicina digitale – All’inizio di questo mese è stato inaugurato a Pisa, presso l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, un “super computer” che riesce ad ottenere diagnosi precoci di malattie cerebrali come il Parkinson e altre malattie neurodegenerative.

E’ facile capire l’importanza di questo nuovo strumento che consente di intervenire tempestivamente e mettere in atto tutte le azioni utili a rallentare la progressione della malattia.

E’ un altro passo avanti nel progresso della medicina, che punta ormai sempre più ad utilizzare l’intelligenza artificiale come strumento capace di registrare, elaborare, interpretare un’enorme quantità di dati, simulando artificialmente le attività della mente umana, e quindi imparando dall’esperienza.

Nell’attuale pratica clinica, l’I.A. viene utilizzata per riconoscere quadri radiologici relativi a ictus e tumori del cervello, registrare un elettrocardiogramma patologico, in particolare rispetto ad aritmie e fibrillazioni atriali, permettendo di prevenire l’ictus cerebrale e lo scompenso cardiaco, mettere a punto terapie oncologiche più mirate, dare un sostegno a persone fragili o invalide tramite l’utilizzo di robot “umanizzati”, come Pepper, il primo robot in grado di percepire le principali emozioni e adattarle alle persone che lo circondano.

In pratica, Pepper impara dalle persone con cui interagisce emozioni e sensazioni, e riesce a mettersi in contatto con loro in modo più empatico degli altri robot, stimolandole ad affrontare percorsi di apprendimento e/o miglioramento.

Si tratta di obiettivi raggiunti da poco, ma già predetti nel 1950 da Alan Turing che, con estrema accuratezza, aveva previsto che nell’arco di 50 anni i computer sarebbero stati in grado di far girare un “imitation game” velocissimamente.

E’ grazie all’intuizione di Turing, infatti, che i computer cominciano ad essere utilizzati in un modo che sarà il preludio della moderna I.A.

Durante la II guerra mondiale, Turing era stato incaricato di decrittare le chiavi di codificazione dei messaggi del nemico, ma i tedeschi cambiavano chiave ogni 24 ore.

Turing capisce che è tempo sprecato cercare di decrittare i codici giorno per giorno, e decide di realizzare una macchina che decifri autonomamente ogni singolo messaggio.

Riesce nel suo intento, e ci lascia queste parole: “La domanda “Le macchine possono pensare?” credo sia troppo senza senso per meritare una discussione. Nondimeno, credo che alla fine del secolo l’uso delle parole e dell’opinione pubblica istruita sarà cambiato così tanto che si potrà parlare di macchine che pensano senza aspettarsi di essere contraddetti”. (Traduzione libera; Turing, 1950).

La grossa sfida che hanno davanti gli analisti di oggi consiste nel rendere queste macchine prive di pregiudizi, da loro registrati asetticamente e quindi inglobati nella loro esperienza, e mutuati da comportamenti umani sbagliati che sono diventati un bagaglio della loro conoscenza.

Questo problema è stato spesso riscontrato in alcuni esperimenti che mettevano in contatto un’intelligenza artificiale con i social network, riscontrando frequentemente linguaggi misogini e razzisti.

Purtroppo, questi pregiudizi si registrano anche, per esempio, nelle scelte fatte da alcune compagnie assicurative, apparentemente neutrali, perché dettate da algoritmi, non da funzionari della compagnia.

Tornando all’applicazione dell’I.A. in medicina, si può ben dire che in questo settore i pregiudizi non esistono, esistono solo enormi quantità di dati che l’I.A. riesce ad analizzare superando i limiti delle capacità umane.

Insomma, come afferma J. Kaplan, non è più vero che “i computer fanno solo quello che sono programmati a fare“.

L’I.A. è già in grado di fare diagnosi e prognosi basandosi su dati, immagini radiologiche, sequenze di DNA, preparati istologici.

Quest'”autonomia” digitale non deve essere confusa con il “fai da te” dell’utente medio, che si affanna a cercare online risposte alle sue domande sul suo stato di salute, senza capire che solo un medico è in grado di “leggere” i dati forniti dai nuovi strumenti digitali.

Altrimenti, non resta che dare ragione a Yuval Noah Harari che, nel suo Homo Deus. Breve Storia del Futuro, fa un’analisi dello stato dell’arte dell’umanità del XXI secolo.

Ora che il mondo è economicamente prospero e in pace, dice Harari, coltiviamo l’ambizione di trasformarci da “Homo Sapiens” in “Homo Deus”.

Rischiamo di voler mettere la robotica, l’intelligenza artificiale e l’ingegneria genetica al nostro servizio con l’intento di ricercare l’immortalità e la felicità eterna.

E secondo Harari, questo non può che significare una cosa: il genere umano rischia di rendere se stesso superfluo.