Lo specchio ambiguo: identità, doppio, deformazioni (parte seconda)

Lo specchio ambiguo: identità, doppio, deformazioni (parte seconda) –
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In collaborazione con la pagina Facebook Finestre su Arte, Cinema e Musica, con questo secondo articolo si conclude l’analisi della semantica dello specchio nella cinematografia.
Lo specchio ambiguo: identità, doppio, deformazioni (parte seconda)
L’identità si rivela allo specchio
Quarto potere (1941)
Le mise en abyme (locuzione francese che significa letteralmente “collocato nell’infinito” o “collocato nell’abisso” e che indica una tecnica nella quale un’immagine contiene una piccola copia di se stessa, ripetendo la sequenza apparentemente all’infinito) è un effetto molto usato nel cinema. In particolare alcuni film di Orson Welles contengono delle scene chiave girate facendo ricorso a specchi multipli con questo effetto di “inabissamento”. Questa della foto è una delle scene più celebri di Citizen Kane (Quarto potere, 1941). In essa vediamo il protagonista Charles Kane nel suo castello di Xanadu attraversare un corridoio arredato di specchi che riflettono e moltiplicano la sua immagine all’infinito.

In una sola scena il regista riesce a far “vedere” quanto complessa, molteplice, inafferrabile sia la personalità del personaggio Kane, e quanto grande, ineluttabile e fatale la sua solitudine. Non la solitudine di chi si ritira in se stesso, ma quella di chi dilata se stesso fino a cancellare tutto il resto, proiettando il proprio io all’infinito.
Quarto potere si svolge come un film inchiesta (Borges lo definì un “giallo metafisico”); è la storia di un giornalista che, intervistando i vari personaggi che ebbero a che fare con il cittadino Kane, cerca di scoprire il significato della sua ultima parola, pronunciata prima di morire, “Rosebud” (bocciolo di rosa). Ma il giallo rimane senza soluzione. L’immagine di Kane che ne viene fuori non è univoca, ma ambigua e molteplice; ciascun personaggio ci racconta di questo “Self Made Man” dal proprio punto di vista, così come spesso una stessa scena viene ripresa da punti di vista diversi.
Quella degli specchi è la scena chiave di tutta la narrazione; essa dà senso alla prima e ultima inquadratura del film: il cartello “No trespassing” appeso al cancello di Xanadu. Non si passa. Per quanto ci si sforzi la vera personalità del Citizen Kane resterà sempre un rompicapo, un mistero insondabile e imprendibile. Né il regista nel raccontare, né lo spettatore nel vedere possono entrare dentro e riuscire a capire la vita di un uomo.
Se prima di Quarto potere il linguaggio filmico era strutturato in modo che lo spettatore fosse indotto a farsi un’idea univoca della vicenda e dei personaggi narrati, in questo film Welles, facendo largo uso della profondità di campo e dei piani sequenza, e soprattutto di una narrazione a flashback senza continuità temporale, obbliga lo spettatore a una visione più attiva e a un contributo positivo alla messa in scena. Il peso narrativo viene lasciato soprattutto all’immagine e alla sua forza evocativa, piuttosto che al montaggio.
A questo link è possibile vedere la scena qui descritta.
Il servo (1963)
“The servant” (“Il servo”) di Losey è un film della prima metà degli anni Sessanta, che tratta del conflitto di classe: ma di un conflitto giocato nell’intimità domestica, in un rapporto psicologico tra il servo (un grande Dirk Bogarde) e il padrone (un James Fox all’esordio).
Tony, un ricco giovane londinese, assume come servitore Hugo Barrett. Inizialmente quest’ultimo pare assolvere con zelo e fin troppo ossequio al proprio incarico e i due sembrano calarsi perfettamente nei rispettivi ruoli, ma pian piano questa relazione dominus-servus inizia a trasformarsi e a ribaltarsi.
Dall’omonimo romanzo d’esordio di Robin Maugham, Il servo è un film spietato, claustrofobico, implacabile, un dramma psicologico giocato come un thriller. È un film che tratta i rapporti di potere: quelli tra le classi sociali come quelli tra i sessi. La dialettica hegeliana servo-padrone non sfocia qui in lotta di classe, ma in un confronto spietato e quotidiano. Il personaggio del padrone debole, uomo senza qualità, rappresenta una classe borghese ormai decadente, mentre il servo Hugo Barrett è il personaggio teso alla completa devastazione dell’ipocrisia di quella classe in disfacimento e alla conquista del potere, qui inteso come completo assoggettamento dell’altro. Eppure il film non si risolve solo in questo, perché il rapporto tra i personaggi è caratterizzato da una complessità molto più ambigua.
Ambientato quasi tutto nello spazio claustrofobico di una casa a tre piani, che costituisce anch’essa una protagonista della trama, il film beneficia della perfezione formale della messa in scena, che fa uso abbondante del ricorso a specchi e superfici riflettenti e deformanti. Lo sviluppo di alcune scene si gioca addirittura tutto in uno specchio. Vediamo in particolare questa foto che rappresenta il fotogramma di una scena chiave dell’inizio del film. Il servo, di cui si vedono le mani in primo piano, sta lucidando uno specchio leggermente convesso e quindi lievemente deformante. In esso è riflessa la sua immagine e, in secondo piano, quella del suo padrone. Qui l’ambiguità dello specchio amplifica il significato dell’inquadratura: oltre a dilatare lo spazio, infatti, mostrando ciò che non è inquadrato direttamente, lo specchio riflette una realtà al contrario, dove la destra e la sinistra sono invertite. Quindi l’immagine servo-padrone, riflessa nello specchio, anticipa il capovolgimento di quella relazione, che sarà lo sviluppo dell’intero film. E ciò che si ribalterà sarà anche lo stesso personaggio di Barrett, che rivelerà la sua doppiezza: da servo ligio ed ossequioso ad aguzzino spietato.
“La mia sola ambizione è servirti”, dice Barrett a Tony all’inizio del film. Capovolta, reciterebbe: “La mia unica ambizione è dominarti”. E il film è proprio la storia di un ribaltamento, esattamente come si capovolge un’immagine riflessa nello specchio.

Taxi driver (1976)
Gli specchi che compaiono in questo film di Scorsese ci introducono nel mondo disturbato della psiche del protagonista; sono come delle finestre che ci portano ad affacciarci nel buio dei suoi deliri interiori.
Attraverso lo specchietto retrovisore del taxi guidato da Travis (Robert De Niro), reduce di guerra, veniamo introdotti nell’universo notturno di New York, con il suo degrado e la sua violenza, con la sua fauna di personaggi disparati: drogati, prostitute, spacciatori, magnaccia, uxoricidi, criminali, i dannati che occupano il sedile posteriore della vettura, mentre il tassista-Caronte li traghetta da una parte all’altra della città. Lo specchietto retrovisore, attraverso cui Travis osserva quel mondo, è la porta attraverso cui varchiamo la soglia che separa la metropoli luminosa e scintillante vista alla luce del sole dalla sua anima notturna, depravata e violenta.
Come scrive Paul Schrader, lo sceneggiatore del film, Travis “è l’uomo che porta chiunque ovunque per denaro, l’uomo che si muove nella città come il topo nella fogna, l’uomo che è costantemente circondato dalla gente e tuttavia non ha amici. Il simbolo assoluto della solitudine urbana… Il film si impernia su un’automobile come simbolo della solitudine urbana, una bara metallica”.
Questa condizione è tutta nel monologo che avviene davanti allo specchio:
“Ma dici a me? Ma dici a me? Non ci sono che io qui…”

Se la prima parte della frase – il famoso you talkin to me? – è una delle battute più celebri e più citate della storia del cinema, quel “non ci sono che io qui…” è il vero fulcro del film. Travis è un uomo che vive una solitudine assoluta, quella di colui che non ha più nemmeno una sua propria identità. Egli è alla ricerca di un suo io, ma in questo caso lo specchio non funge da strumento di identificazione, bensì di dis-identificazione. Nella sua immagine riflessa egli proietta il mondo che rifiuta e da cui è rifiutato; Travis sta di fronte ad essa, con pistola e divisa mimetica, come al cospetto del suo nemico.
Il monologo davanti allo specchio sancisce un momento di cambiamento nella sua vita: è il passaggio dalla precedente condizione di semplice osservatore blandamente impegnato ad annotare quotidianamente su un diario lo squallore della sua routine e i propri miseri sforzi di identità, alla decisione di “fare qualcosa”, di compiere il gesto epico, decisivo, la missione che riscatterà la sua vita e cambierà la storia, la catarsi universale in grado di riportare l’ordine nel caos. Ma colui che non ha un proprio io e non riconosce l’altro da sé, non può che scambiare la palingenesi del mondo con il delirio farneticante e ingenuo delle proprie fantasie.
Attraverso quello specchio fluiscono metaforicamente e si esternano rabbia repressa e desiderio di autodistruzione. Ma lo specchio del monologo è anche un varco che conduce lo spettatore nell’abisso di una mente alienata, nella follia delirante e schizofrenica che esploderà in violenza. Lo spettatore lo attraversa quel varco, perché fin lì i monologhi fuori campo di Travis l’hanno portato a identificarsi con lui, con l’eroe della storia, ambiguo e pazzoide, ma pur sempre eroe, con il quale condivide il rigetto di quella società corrotta e crudele.
E alla fine l’intero film è uno specchio che ci inoltra nel lato oscuro dell’America anni Settanta, un’America ferita e sbandata, artigliata dal dramma post-Vietnam e dalla disgregazione sociale. Nel personaggio di Travis quella società raggiunge l’apice delle sue contraddizioni, delle sue illusioni e frustrazioni, delle sue incoerenze e idiosincrasie.
A questo link la celebre scena del monologo allo specchio.
Memento (2000)
Riuscite ad immaginare una situazione angosciosa pari a quella di chi si guarda allo specchio e non si riconosce? O meglio, ricorda il suo nome, sa chi è stato, cosa gli è accaduto tanto tempo prima, ma non sa nulla del suo passato recente, di ciò che ha fatto ieri, del luogo in cui si trova, di cosa è diventato nel frattempo, delle persone che gli sono intorno. È quello che succede a Leonard Shelby (Guy Pearce), protagonista di Memento, il secondo e ambizioso film di Christopher Nolan, un thriller psicologico che mette senza dubbio alla prova l’intelligenza dello spettatore.
Leonard Shelby è stato vittima di un’aggressione, durante la quale ha subito un trauma cerebrale che gli impedisce di avere memoria a breve termine; Leonard cioè dimentica tutto ciò che ha vissuto di recente e praticamente non ha più nessun ricordo successivo al trauma. Finora il cinema ci aveva abituato a storie di amnesia, a personaggi alla ricerca di un passato anteriore a un qualche avvenimento traumatico. In questo caso invece il passato è nitido; ciò che lui e lo spettatore devono ricostruire sono gli avvenimenti avvenuti dopo quell’avvenimento.
Nella stessa aggressione è rimasta vittima anche la moglie di Leonard, per cui motore del film è la sua ricerca di vendetta. Ma come orientarsi senza la possibilità di ricordare il passato immediato? Per questo egli ha elaborato una strategia: appunti scritti, polaroid, tatuaggi su tutto il corpo che gli forniscono indicazioni su cosa è successo e cosa dovrà fare. La cosa che più ci colpisce sono senza dubbio i tatuaggi. Sono incisi su tutto il corpo e quelli sul torace sono scritti al contrario, in modo che possano essere letti solo di fronte a uno specchio. Quei segni impressi sulla carne sono la sua unica salvezza, la sua unica possibilità di identità, che si riduce a un certo numero di indizi e a degli obiettivi da perseguire. C’è più di una scena nel film in cui il protagonista è di fronte a uno specchio. È uno specchio che non riflette un’identità, ma solo dei propositi, delle azioni da compiere. E senza memoria, condannato a un eterno presente, quei propositi tatuati sulla pelle inducono il protagonista a rifare la stessa azione, a ripeterla senza soluzione. Lo specchio, senza la consapevolezza del tempo che passa, conduce fatalmente all’inganno. L’identità presuppone la memoria e la consapevolezza; presuppone il “flusso di coscienza”. Una memoria fuori dalla coscienza, riposta esclusivamente in segnali esterni, come le foto e gli appunti scritti, rischia di diventare una memoria fallace, parziale perché manipolabile dalla volontà. Un’esistenza legata esclusivamente al momento presente, è precaria, caotica, senza senso; senza passato, il futuro è solo menzogna. Per sopravvivere e trovare uno scopo, ci si aggrappa alle menzogne. Ed è quello che farà Leonard, per poter continuare ad andare avanti.
La particolarità di questo film è senza dubbio il montaggio. Esso è infatti costruito a ritroso, partendo dall’ultima scena. Ma anche se all’indietro, la sua struttura non è lineare, ma procede su due tempi narrativi opposti: le scene che si susseguono sono alternativamente l’ultima in ordine cronologico, poi la prima, poi la penultima, poi la seconda, e così via. La scena finale del film è quindi quella cronologicamente centrale, in cui l’intreccio si scioglie con relativo colpo di scena. Sembra davvero un rimbalzare di specchi, come una mise en abyme cinematografica.
Sequenza dopo sequenza, lo spettatore si trova nello stesso stato di consapevolezza (e di spaesamento) del protagonista, anche se il racconto procede a flashback, proprio perché Leonard non ricorda nulla del suo passato recente.
Nolan mette alla prova il linguaggio del cinema, portando alle estreme conseguenze le potenzialità del montaggio. Decostruendo e ricostruendo la linearità del racconto, mette in moto un meccanismo perverso, un rompicapo difficile da sbrogliare, che obbliga lo spettatore a riprendere continuamente le fila, a cercare di dare alla narrazione una unità logica e temporale, mettendo in sequenza i fatti, orientandosi all’interno di una realtà labirintica che si riazzera continuamente. Egli dà vita a un mondo frammentato e caotico, e, forse per questo, perfetta rappresentazione di quello attuale.

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