Lo sguardo eterno: dalle imagines maiorum ai ritratti del Fayum

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In collaborazione con STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC e con Finestre su Arte, Cinema e Musica.
Lo sguardo eterno: dalle imagines maiorum ai ritratti del Fayum
Arrivammo finalmente in un luogo, dove presso ad un pozzo cavato, che mi dissero essere stato scoperto da lui tre o quattro giorni prima di dentro a certa rena, sotto alla quale la teneva nascosta, cavò una mummia, ovvero corpo intero di un uomo morto, che per esser benissimo conservato, e curiosissimamente adorno e composto, a me parve cosa molto bella e galante. Si vedeva esser l’uomo disteso e nudo, ma fasciato strettamente, ed avvolto in una gran quantità di pannilini, imbalsamati con quel bitume che, incorporato poi con la carne, fra di noi si chiama mummia, e si dà per medicina. Quelle fasce e legami mi fecero sovvenir subito di Lazzaro risuscitato, che è facil cosa che stesse in questo modo. V’era di più, sopra il corpo attorno, una copertura de’ medesimi panni tutta dipinta e indorata, che era molto ben cucita ed impegolata, come io credo, da tutte le parti, e sigillata da ogni banda con molti sigilli di piombo, cose tutte che davano indizio di persona di rispetto. Ma quello che importa, nella parte di sopra del corpo, che per la quantità degli avvolgimenti veniva ad esser piana quasi come il coperchio di una cassetta, vi era dipinta una effigie d’uomo di età giovanile, che senza dubbio è il ritratto del morto, ed era adornata nell’abito e da capo a piedi, con tante bagattelle fatte di pitture e d’oro, con tanti geroglifici e caratteri e simili capricci, che V. S. mi può credere che è la più graziosa cosa del mondo; oltre che gli uomini curiosi di lettere ne possono cavar mille argomenti per la certezza delle antichità di quei tempi”.

Così è riportato nel diario di viaggio, pubblicato nel 1650 con il titolo di Viaggi in Levante dall’esploratore italiano Pietro della Valle, detto il Pellegrino, il quale nel 1615 fu il primo europeo a ritrovare e descrivere i ritratti del Fayum, portando con sé in Europa alcune mummie, ora conservate all’Albertinum di Dresda. Ma dovevano trascorrere ancora molti anni prima che i ritratti asportati dalle necropoli dell’oasi del Fayum (o Fayyum), splendida e fertile regione dell’Egitto, realizzati in epoca ellenistica, tra la fine del I e il III secolo d.C., ottenessero una notorietà diffusa, anche se nel frattempo qualche esemplare isolato delle pitture fosse già approdato nelle collezioni europee.
All’inizio del 1888 Flinders Petrie cominciò i suoi scavi ad Hawara, presso l’oasi, portando alla luce settantatré ritratti, quasi tutti in buono stato grazie soprattutto alle condizioni in cui vennero conservati, nella sabbia asciutta del deserto e protetti dalle tombe. Contemporaneamente, il commerciante d’arte Theodor Graf ne acquistò circa trecentocinquanta esemplari, scoperti dai Fellah proprio al Fayum, nella necropoli di Er-Rubayat. Le notizie della scoperta e le esposizioni delle tavole suscitarono grande clamore in Europa. I ritrovamenti effettuati circa dieci anni dopo da Albert Grayet nella necropoli di Antinoopolis decorarono il padiglione francese all’Esposizione mondiale a Parigi del 1900.

In particolare stupiva la grande naturalezza e immediatezza espressiva, in poche parole la modernità di questi ritratti, così simili agli stili europei post-impressionisti di quegli anni, al punto da far sorgere a volte il sospetto che si trattasse di vere e proprie falsificazioni. E notevole fu l’influenza esercitata da queste tavole sullo sviluppo dell’arte moderna.
Il ritratto funerario romano
Come sappiamo dalle fonti scritte, i ritratti erano diffusi in tutto l’ambito mediterraneo, dove erano impiegati sia come oggetti domestici (di culto o di ornamento) che pubblici. Nel ritratto trovò espressione in modo particolare l’arte romana, soprattutto a partire dall’Età repubblicana. Il ritratto era frutto di esigenze comunicative e autorappresentative e di un modo di concepire la vita pubblica che erano marcatamente romani e trovò compiuta forma espressiva in un linguaggio originale alla cui definizione diedero contributo sia la ritrattistica medio-italica che soprattutto quella greca.

Il ritratto romano affondava le sue radici in ambito privato, nel culto degli antenati e nei riti funerari e, in ambito ufficiale, nelle pratiche onorarie volte alla celebrazione di uomini illustri della città. Nell’antica Roma, infatti, si diffuse tra i patrizi l’uso di ricavare delle maschere di cera degli antenati dal calco preso sul volto del defunto, per fissarne la fisionomia, e poi di conservarle nell’atrium domestico, in apposite edicole lignee (armaria), identificate ognuna con il nome dell’antenato (titulus). Questa usanza, come ci tramanda Polibio nel II secolo a.C . (Storie, VI, 53), era regolamentata da una legge specifica, lo ius imaginum, che ne limitava il privilegio al solo ceto patrizio, rendendo il possesso delle maschere un segno distintivo di appartenenza sociale. In base a quelle norme, ogni discendente, comprese le donne, poteva portare nella nuova casa i ritratti degli avi ed esporli nel corso di particolari cerimonie pubbliche che si svolgevano nella domus romana, come quelle nuziali.
Cicerone, nell’Orazione Pro C. Rabirio Postumo, facendo l’elenco degli onori più prestigiosi di cui poteva godere un cittadino romano, oltre alla sella curulis, alle provinciae e ai triumphi, menziona proprio il diritto di tramandare il proprio ritratto (imago) alle generazioni future («imago ipsa ad posteritatis memoria prodita»).
Si può, dunque, affermare che il ritratto veristico sia nato a Roma in ambito privato, ed abbia trovato ampia diffusione anche per la necessità di replicare le immagini di culto domestico da affidare agli eredi, spesso in numerose copie.

Con il termine “imagines maiorum” si indicavano comunemente i ritratti degli antenati. Questi erano sostanzialmente di due tipi: in un primo momento prevalse la maschera di cera, ricavata dal calco in negativo del volto del defunto; in seguito si passò ai busti in marmo o in bronzo, ai ritratti su tavola, alle imagines clipeatae (dipinti su scudi), eseguiti imitando le fattezze della persona e certamente meno deperibili della cera. Il passaggio dalla maschera al busto o alla tavola, e quindi il superamento dell’origine dell’immagine come impronta, comportò la progressiva perdita della funzione magico-rituale del ritratto.
Nell’ambito del rito funerario, le imagines assolvevano una funzione ontologica, cioè prendevano il posto della persona non più in vita (presenza in absentia), costituendone un autentico “doppio figurale”. Nel caso delle maschere, il nesso tra il soggetto e l’oggetto-maschera era diretto, garantito dalla relazione “impronta”/matrice, che garantiva all’effigie non solo la somiglianza ma soprattutto l’originalità e l’unicità. Il vincolo tra l’immagine e la persona rappresentata era tale che la prima assumeva la funzione magica di sostituire l’assente.

Oltre alle maschere di cera, Plinio ci dice che nell’atrio erano conservati anche dei ritratti dipinti, «imagines pictae», autenticate dai tituli, visivamente collegati da una rete di “linee” che si dipanavano da un’immagine all’altra a formare un intreccio di legami generazionali, una sorta di genealogia della famiglia definita «stemmata», che altro non era se non la rappresentazione visiva della rete di relazioni propria di quella gens.
Entrambe le tipologie di ritratto, le imagines di cera e le tavole pictae, non erano dunque dei semplici manufatti ma oggetti quasi di culto. Esse avevano una funzione dichiaratamente “paradigmatica”: sia quando venivano portate nelle strade durante la processione funebre, che dopo l’allestimento nello spazio domestico, esse costituivano dei veri e propri sistemi simbolici, concepiti per attribuire identità alle persone che non erano più in vita, certificandone la presenza e garantendone il perdurare dell’influenza e del prestigio.

Il cosiddetto ritratto veristico romano diventò una compiuta manifestazione dell’ambiente patrizio e senatoriale, in grado di esprimere in modo diretto e con sobria severità i princìpi su cui la nobiltà romana andava fondando l’identità del nuovo Stato. Il ritratto di magistrati e persone illustri, che poteva essere esposto in spazi pubblici, nei fori o nei santuari, nonché in edifici come terme o teatri, era funzionale all’esaltazione dell’individuo, capace di incarnare le virtù civiche della Repubblica; doveva celebrare le gesta del condottiero o il valore politico di personaggi del patriziato, magistrati e senatori; serviva, ancora, a glorificare le grandi famiglie aristocratiche, sottolineandone le origini. È sul ritratto privato, dunque, derivato dalla maschera, che vengono fissati i caratteri di realismo e verosimiglianza fisionomica che distingueranno la produzione romana da quella ellenistica, e su cui saranno poi elaborate le varianti del ritratto ufficiale.

In età augustea, la ritrattistica funebre si estese ai riti funerari dei piccoli commercianti e dei liberti, propagandosi da Roma alle province e conservandosi per secoli. Le tombe erano così utilizzate da persone appartenenti a vari livelli sociali per presentare in una dimensione ufficiale i propri ritratti e i simboli del proprio status.
Da elemento di culto privato, il ritratto divenne altresì una delle principali forme di espressione artistica ufficiale e di propaganda. Il ritratto pubblico, che tendeva ad esaltare e celebrare il soggetto, conobbe una incredibile diffusione. Il significato di questo tipo di autorappresentazione si evince dal fatto che una delle più gravi pene e dei più grandi disonori per un romano era la cosiddetta damnatio memoriae, la cancellazione del ricordo attraverso la distruzione o la cancellazione delle immagini e delle iscrizioni.

I ritratti di età repubblicana rivelano sobrietà e austerità, in linea con la tradizione medio-italica, e la tendenza a riportare fedelmente i tratti fisionomici del defunto, anche quelli meno gradevoli esteticamente, in contrasto con l’eleganza e l’idealità formale dei greci. In età augustea, invece, l’arte è più aperta alle influenze classicistiche, per cui da parte degli artisti si sviluppa la volontà di creare delle immagini più idealizzate, ispirate alla qualità tecnica e formale dei greci.

Anche la ritrattistica greca aveva conosciuto uno sviluppo notevole e, grazie anche a personalità artistiche come Lisippo e Lisistrato, era riuscita definitivamente a superare le ultime resistenze verso il ritratto fisiognomico, cioè riproducente le reali fattezze del soggetto, dotato di sfumature psicologiche. Durante il periodo ellenistico la scultura aveva seguito un’ispirazione maggiormente naturalistica, allentando il richiamo agli ideali di bellezza e perfezione formale caratteristici del periodo classico. In sintonia con l’accresciuto volgersi dell’intera cultura verso l’ambito privato, determinato dalla crisi della polis, la ritrattistica greca, in particolare quella onoraria e funeraria, aveva conosciuto in quel periodo un’impronta realista ignota alle epoche precedenti.

Nell’ambito di quella tendenza all’eclettismo che caratterizzò in particolare l’età augustea, anche i criteri di realizzazione della ritrattistica romana si avvicinarono sempre più a quelli greci. In questo modo, grazie anche a una maggiore padronanza della lavorazione plastica, si determinò un equilibrio tra l’acuto realismo tipico della sensibilità medio-italica e romana e la raffinatezza e l’eleganza, la morbidezza del modellato e l’introspezione psicologica di ispirazione ellenistica.
I supporti sui quali si espresse la ritrattistica romana furono molteplici: oltre il marmo e il bronzo, il ritratto fiorì su gemme, cammei, monete, scudi (immagine clipeata). Il ritratto interessò anche la pittura (come si può notare in alcuni reperti rinvenuti negli scavi pompeiani), sebbene ci siano pervenuti solo pochi esemplari e nessuno riferibile ai grandi artisti dell’epoca.


Il genere del busto-ritratto, limitato alla raffigurazione della testa e del collo, si mostra come tipo originale della produzione romana, che sostituisce l’erma, utilizzata in Grecia per raffigurare divinità e personaggi celebri. Se i Greci avevano prevalentemente considerato l’uomo nella totalità e armonia del corpo nel suo insieme, i Romani mostrano una predilezione per la testa, luogo in cui si concentra la personalità e dunque sufficiente per rappresentare l’intera individualità.
I ritratti del Fayum come sintesi di usanze funebri romano-egizie
Insieme agli affreschi di Ercolano e Pompei e a pochi altri esempi, i ritratti del Fayum formano l’eredità pittorica pervenutaci, in buono stato di conservazione, dall’antichità.
Essi sono stati ritrovati in forma di pannelli dipinti (pinakes) nella regione egizia del Fayum, ad Hawara, Marina-el-Alamein e Antinoopolis, mentre altri ritratti eseguiti sui sudari provengono per la maggior parte dagli scavi condotti nelle località di Saqqara, Asyut e Tebe.

Sia le tavole che i sudari erano stati applicati alle mummie dei defunti appartenenti all’élite locale, in base al costume diffuso di utilizzare ritratti dipinti per onorare o ricordare determinate persone. Queste tavole, tuttavia, si presentano in tutta la loro originalità, come il frutto di quel sincretismo culturale della società egitto-greco-romana della regione del Fayum. Oggi, di questi ritratti, se ne conoscono circa seicento, sparsi nei musei di tutto il mondo.
All’epoca dei Tolomei, la regione del Fayum era stata popolata da numerosi coloni greci, principalmente veterani e ufficiali militari (ai quali i lotti erano stati attribuiti in pagamento del loro servizio), che si unirono in relazioni matrimoniali con le donne del luogo. Spesso costoro affittavano le terre, affidando il lavoro più duro a contadini prevalentemente egiziani, richiamati in quest’area da tutto il regno, cosicché venne a crearsi un tessuto sociale – e dunque culturale – estremamente vario, un’etnia complessa che nella sua storia andò combinando elementi greci ed egiziani in modo inscindibile.

Fu così che, durante la successiva dominazione romana, il Fayum risultava essere popolato da individui di origine mista greco-egizia, nonché da egizi ellenizzati. Pur mancando nelle fonti scritte notizie dirette sull’estrazione sociale delle persone che imbalsamavano e facevano eseguire i ritratti dei propri defunti, svariati indizi rimandano alle élite locali, anche perché lo stesso processo di mummificazione e avvolgimento dei corpi era enormemente dispendioso, sicuramente non alla portata di tutti. Possiamo di conseguenza essere certi del fatto che gli individui rappresentati nei ritratti di mummie erano membri del ceto locale benestante, di ascendenza greco-egizia. I nomi dei defunti sono infatti tutti redatti in caratteri greci e per oltre il 60% sono greci o greco-teoforici (ossia derivati da nomi di dèi greci). Nell’insieme, soltanto quattro nomi sembrano rivelare un’origine romana o latina. Si tenga comunque presente che molte mummie sono state ritrovate senza una tavola che le ritraesse (lo studioso Flinders Petrie riporta che solo l’1-2% delle mummie da lui rinvenute conteneva una tavola raffigurata).

La ritrattistica del Fayum è posteriore all’arrivo dei romani e costituisce una sintesi di usanze funebri romano-egizie. L’influsso della cultura romana sui costumi locali fu maggiore di quello che avevano esercitato i coloni greci e operò notevoli trasformazioni, tranne per quanto riguarda le pratiche religiose, come ad esempio i riti funebri, che rimasero improntati alla tradizione locale e alla pratica dell’imbalsamazione e avvolgimento in bende. I ritratti di mummie, tuttavia, ci testimoniano un ceto sociale che da un lato è radicato negli antichi culti, ma che dall’altro si orienta verso i costumi dell’Impero, dimostrando l’appartenenza a una comunità elitaria sovra-regionale.
Sebbene la ritrattistica funeraria fosse largamente diffusa, la sua applicazione alle mummie rimane, però, un fatto tipicamente egiziano. E vero che anche a Roma alcuni individui furono mummificati prima di essere sepolti, ma sembra che quest’uso sia stato solo un fatto isolato. Le mummie romane, inoltre, erano spesso seppellite con i propri indumenti e i loro volti rimanevano visibili e non venivano nascosti sotto maschere o ritratti dipinti. Le mummie dell’Egitto romano erano invece prodotte con le tradizionali tecniche egiziane. I corpi dei defunti venivano avvolti in centinaia di metri di bende sottili e, in alcuni casi, lo strato esterno del bendaggio era un lenzuolo dipinto, su cui talvolta era riprodotta l’intera figura del defunto, presentato nel proprio abbigliamento usuale. La figura del morto poteva comparire da sola, oppure affiancata da Anubi, il dio egiziano con la testa di sciacallo che presiedeva all’imbalsamazione, e da Osiride, il dio dell’oltretomba.

In questo caso colpisce la coesistenza, nella stessa immagine, di due mondi, quello degli dei e quello del defunto. Quest’ultimo guarda fuori dal quadro, in direzione dell’osservatore: quello sguardo rende visibile, come soglia, il legame inscindibile tra il mondo dei morti e quello dei vivi.
In altri casi il lenzuolo era integralmente ricoperto di un colore rosso e dipinto con figure, oggetti e simboli egiziani.

Queste mummie sono, pertanto, saldamente ancorate alle pratiche religiose della tradizione egiziana e contemporaneamente se ne discostano, proprio a causa del ritratto, che aveva preso il posto della tradizionale maschera. Queste tavole, infatti, dallo sconcertante realismo, poco hanno a che fare con l’antica maschera funeraria egizia, mostrando invece quella fedeltà al vero che caratterizzava la ritrattistica romana.
Le prime mummie con ritratti dipinti apparvero all’inizio del I secolo d.C, più o meno in epoca tiberiana, quando l’Egitto venne esposto a un’accresciuta influenza da parte di Roma. In Egitto l’idea della rappresentazione tramite il ritratto in ambito funebre trovava terreno fertile. Anche in quella terra, fin dall’antichità, i ritratti costituivano uno strumento per tributare onori nello spazio pubblico ed erano un elemento usuale nell’allestimento delle tombe. D’altro canto, però, i ritratti costituivano per le élite locali anche un mezzo per esprimere conformità al resto dell’Impero romano e per distinguersi dagli strati inferiori della popolazione.

Questo è ben visibile nel modo di presentarsi degli effigiati. Uno degli elementi distintivi più vistosi dei ritratti di mummie, infatti, è la loro somiglianza con i ritratti eseguiti in altre parti dell’Impero romano, compresa la capitale. Acconciature, abbigliamento e gioielli corrispondono ampiamente ai costumi diffusi nel resto dell’Impero. Le donne imitavano le pettinature rese popolari dalle imperatrici, dalle acconciature a riccioli con treccia sulla nuca o avvolta a corona sulla sommità del capo, a quelle semplici, con scriminatura centrale, di epoca antonina, fino alle esuberanti pettinature delle imperatrici della dinastia dei Severi. Gli uomini portano solitamente un chitone bianco con davi scuri, sul quale spesso poggia un mantello a sua volta bianco, mentre le donne indossano vestiti colorati. Come a Roma, anche in Egitto, nel passaggio tra II e III secolo, si può osservare una crescente tendenza a indossare indumenti di lusso. Anche i gioielli delle signore – orecchini, collane, spille e diademi – vengono scelti prevalentemente in base alla moda corrente.

Accanto ai gioielli, sui ritratti di mummie si può individuare anche una particolare predilezione per pendenti con funzioni genericamente magiche. In numerosi ritratti, soprattutto in quelli dove sono rappresentati ragazzi, compaiono capsule oblunghe, appese al collo tramite una fascetta di cuoio, le quali, come di nuovo attestano i ritrovamenti reali, contenevano soprattutto lamine d’oro, arrotolate o ripiegate, riportanti testi magici. Carattere di amuleto avevano infine anche i numerosi pendenti simili a uno spicchio di luna, e perciò denominati lunulae, che nell’Egitto romano venivano portati soltanto da fanciulle e donne.

I ritratti del Fayum devono essere considerati un fenomeno a se stante, circoscritto sia dal punto di vista geografico che cronologico. Tali opere infatti coprono un periodo che va dalla fine del I secolo a.C. alla metà del III secolo d.C., anche se alcuni studiosi si spingono fino al IV secolo. La datazione dei dipinti, tuttavia, può essere stabilita con buona approssimazione, non solo sulla base dei dati tecnici, ma anche per la presenza nell’iconografia di particolari (vestiti, gioielli, pettinature) ben noti da altri contesti.

Ad oggi rimangono ancora sconosciute le cause della fine di questo tipo di produzione artistica, anche se si sono proposte delle possibili spiegazioni, legate in particolare alla crisi economica del III secolo, a intervenuti cambiamenti sociali e al mutamento delle pratiche funerarie e religiose nella regione (del resto alla fine del III d.C. cadrà in disuso la stessa mummificazione). A tale proposito sembra priva di fondamento l’opinione, spesso avanzata, secondo la quale i ritratti di mummie costituirebbero i precursori delle icone cristiane. La produzione delle mummie-ritratto terminò, infatti, molto tempo prima che fossero realizzate le icone più antiche a noi giunte, e quindi le ultime non possono essere state direttamente influenzate dalle prime.

Dal punto di vista culturale, i ritratti del Fayum rappresentano una fonte importante di informazioni sull’Egitto romano, ma costituiscono anche, in senso più generale, una risorsa per comprendere l’interazione tra tradizioni culturali greche, romane e locali nel Mediterraneo orientale. Dal punto di vista storico-artistico, infine, essi forniscono preziose testimonianze sul genere, per noi quasi del tutto perduto, della pittura su tavola, nonché sul ritratto dipinto che, proprio grazie ad essi, risulta possibile ricostruire, almeno in una certa misura.

FONTI BIBLIOGRAFICHE
In rete
- http://www.edatlas.it/documents/51c37b39-ad25-4622-ae12-67a2e1d54752
- http://archiv.ub.uni-heidelberg.de/propylaeumdok/1764/1/Borg_Lo_squardo_interiore._2009.pdf
- http://dspace.unitus.it/bitstream/2067/1054/1/ccorneli_tesid.pdf
- http://www.nannimagazine.it/_resources/_documents/Uploaded-Files/File/L’oasi%20di%20El%20Fayyum.pdf
- http://www.romanoimpero.com/2014/04/ritratti-del-fayum.html
- https://it.pinterest.com/Abodoma/fayum-portraits-egypt/?eq=fayu&etslf=11368
In libreria
- C. Bailly, L’apostrofe muta. Saggio sui ritratti del Fayum, Parigi, 1997.
- Paolo Fundarò, Lo sguardo eterno. Storia e tecnica dell’encausto dalle origini ai ritratti del Fayum, Espera, 2012.
- Misteriosi volti dall’Egitto, Roma, Fondazione Memmo, 22 ottobre 1997-22 febbraio 1998, Catalogo della mostra.