L’armonia degli opposti: la Fondazione Prada

La Fondazione Prada descrive uno spazio magico ai confini di antico e moderno, cielo e terra, apertura e intimità. Sorge in una periferia ‘ferroviaria’ a sud dello scalo di Porta Romana, tra binari, cantieri, fabbriche; tra testimonianze di un passato che mette nostalgia, evidenze di un presente in continua metamorfosi, presagi di un futuro carico di potenzialità. Un contesto di potente fascinazione, che, di per sé, sollecita l’emotività del passante. A sbalordire, però, è la riconfigurazione architettonica ‒ va ben oltre il restauro, con tre edifici nuovi e sette recuperati ‒ della distilleria Sis, datata 1910 (produceva il brandy Cavallino Rosso, reclamizzato in un Carosello dall’agente 00Sis, Nino Benvenuti).
Sbalordisce per l’armoniosa fusione di opposti: nella molteplicità di variabili spaziali ‒ alto e basso, orizzontale e verticale, ampio e stretto, aperto e chiuso ‒ si specchiano la pluralità dei saperi e delle forme espressive che questa istituzione intende promuovere e un’idea di cultura come arricchimento necessario del quotidiano. In questo progetto, i cortili, dove si può sostare e sedersi anche senza accedere agli spazi espositivi, e il bar Luce ideato dal regista Wes Anderson secondo il suo gusto retro-fiabesco, sembrano assumere la funzione di piazze pubbliche consacrate alla libera espressione, di agorà dal sapore classico.
A rafforzare questa impressione, la struttura trasparente del Podium ‒ uno dei tre edifici nuovi, insieme alla Torre, ancora in costruzione, e al Cinema ‒ offre agli sguardi di chi passeggia nel cortile le opere esposte nella mostra Serial Classic, a cura di Salvatore Settis e Anna Anguissola. La scelta di ripartire dalle sculture greco-romane in uno spazio dedicato all’arte contemporanea vuole innanzitutto ricordare il ruolo civile, ‘politico’ nel senso etimologico del termine, dell’artista, la cui missione, nel mondo antico, era tradurre in immagini i valori condivisi dai cittadini. A quei tempi, l’arte era affare di tutti, non di una ristretta e autoreferenziale casta di eletti. Un messaggio forte, lanciato assegnando il ‘podio’ all’arte classica: se da tempo capita di vedere installazioni contemporaee in musei di antichità, il movimento inverso, in atto qui, è certamente meno consueto, e tanto più fa riflettere. Sul significato dell’arte nel mondo di oggi, ma anche su una duplice distorsione nella percezione comune dell’arte antica: da un lato, le sculture, proprio perché esprimevano valori più condivisi che individuali, erano spesso prodotte in diverse copie, a loro volta copiate ancora dai Greci stessi e successivamente dai Romani. Esse non erano, quindi, ‘uniche’, bensì seriali. D’altro canto, l’immagine di una Grecia classica come museo di marmi candidi è una proiezione mentale, eredità anche della rilettura neoclassica: le statue e i templi, infatti, erano colorati in modo (per noi) spudoratamente kitsch.
Dal condiviso all’intimo, dall’orizzontale al verticale: la Haunted House, una torre appartenente alla vecchia distilleria e ora ricoperta di uno strato di foglia d’oro, ospita le installazioni di Robert Gober e Louise Bourgeois, accomunate da un uso di oggetti familiari in un contesto che li rende estranei, e da suggestioni legate al corpo, all’infanzia e alla sessualità (gli abiti dismessi, la culla con un blocco di cera al posto del bambino, la carta da parati il cui motivo è un intreccio di braccia, l’androgino bifronte abbandonato in un abbraccio senza fine). Piano dopo piano, si sale in un viaggio straniante, dove l’intimità suggerita dalle opere e gli ambienti angusti dialogano con la periferia della grande città, sempre visibile dalle grandi finestre. In alto, all’ultimo piano, un tombino con acqua corrente, il cui posto giusto, con felice ribaltamento, è proprio lassù: al suo interno, un cuore rosso e luminoso, proiettato dal petto verso il cielo.
Dall’alto al basso, il percorso continua nel piano interrato del Cinema, dove Processo Grottesco ci introduce alle profondità del processo creativo. Thomas Demand ha ricostruito una grotta dell’isola di Maiorca ‒ utilizzando 30 tonnellate di cartone grigio, sagomato seguendo un modello 3D e sovrapposto in 900.000 strati ‒ al solo scopo di fotografarla. L’opera vera e propria è la foto, che qui possiamo vedere insieme alla grotta di cartone e al materiale servito per le ricerche preliminari: centinaia di cartoline, libri, guide turistiche, pubblicazioni varie. Questa raccolta colpisce la nostra immaginazione, perché siamo indotti a ‘spiare’ nella mente dell’artista, che tra queste carte ha voluto segnalare con un colpo di evidenziatore la pagina di un trattato di psicopatologia dove viene descritto il ‘Tannhäuserismo’, un disturbo della personalità che si manifesta con l’amore per gli spazi chiusi e le grotte, lontano dall’occhio e dal giudizio degli altri e vicinissimo a un senso sereno, confortevole, di morte.
I due spazi orizzontali, Nord e Sud, accolgono due esposizioni di ampio respiro. La prima racconta le origini dell’idea di una fondazione Prada attraverso opere raccolte inizialmente a partire da un movente personale ‒ il collezionismo ‒ ma disposte in una sequenza che testimonia il crescere di un impegno destinato a sfociare in progetto istituzionale: dal privato al pubblico, dal personale al condiviso, con un finale a sorpresa capace di evocare una felice convergenza tra arte, vita e quotidiano.
Nella galleria Nord, In part mette in scena il corpo ‒ frammentato, ridotto in pezzi, sfregiato, ricomposto attraverso collage e split screen. La parte per un tutto assente, eterna sineddoche alla ricerca di un’integrità perduta.
L’elemento acqua, collocato per opposizione in cima alla torre, ritorna, questa volta per affinità, nella Cisterna, che ospitava i serbatoi per la produzione dei distillati. Le tre opere esposte qui a comporre un Trittico si sviluppano in forme cubiche, associando oggetti ed elementi naturali. Se 1 metro cubo di terra di Pino Pascali è, tautologicamente, esattamente ciò che dichiara di essere, cioè un metro cubo di terra, Lost Love di Damien Hirst trascina lo spettatore negli abissi di una memoria ‒ un inconscio ‒ altrui, sollecitandolo a trovare una chiave di lettura. Nell’enorme vasca dove nuotano pesci colorati, il lettino e gli strumenti ginecologici, l’attaccapanni con il camice, le scarpe e la borsa evocano un incubo segreto, o un futuro mondo acquatico dopo l’apocalisse.