LA STORIA NEL PIATTO. IL CIBO NEI “PROMESSI SPOSI”

LA STORIA NEL PIATTO. IL CIBO NEI “PROMESSI SPOSI” –
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In collaborazione con la prestigiosa rivista STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC parliamo del realismo minuzioso che Alessandro Manzoni mette letteralmente “sul piatto” nel suo romanzo. Profondo conoscitore della civiltà contadina lombarda, ogni sua descrizione, dal cavolo di Perpetua alla polenta di Tonio, crea un microcosmo perfettamente concluso, nel quale si specchia il macrocosmo delimitato dai poli speculari della fame e del cibo.
LA STORIA NEL PIATTO. IL CIBO NEI “PROMESSI SPOSI”
Cibo, fame e umanità
Nei Promessi sposi, il tema della fame e quello speculare del cibo sono affrontati con una serietà e una dignità nuove rispetto alla letteratura precedente. La fame, caratteristica dei poveri e dei villani, era spesso trattata con risvolti comici (pensiamo alle maschere popolari, alla fame atavica di Pulcinella e Arlecchino o ai gozzi di Gioppino che si nutre solo di polenta), mentre con Manzoni diventa un punto focale del paesaggio realistico costruito attorno ai personaggi e il pilastro di una visione etica capace di scandagliare nel profondo il concetto di persona umana. La carestia, non a caso liquidata con superficialità e borioso senso di superiorità da Don Rodrigo e dai suoi commensali (nel capitolo 5), è avvertita sia sotto l’aspetto economico sia sotto quello morale. La questione nevralgica della fame coinvolge infatti la vita intima dell’uomo e se viene a mancare il cibo anche il senso di umanità viene meno: la descrizione dell’assalto ai forni è un affresco condito di particolari crudi e precisi, un quadro che assume poi tinte sempre più fosche. Alcuni stipano la farina nelle casse, nelle botti, nelle caldaie; per le strade, ultima pennellata macabra, si incontrano cadaveri con le bocche piene d’erba masticata, ultimo, disperato, pasto prima della morte. Manzoni racconta l’agonia di un’umanità privata della materia prima della vita: la fame si accompagna a improbabili ricettari con portate a base di pani di riso impastato con orzo, segale e veccia, erbe di prato amare, cortecce d’albero condite con un po’ di sale e acqua di cattiva qualità (capitolo 28).
Sono molti gli episodi del romanzo in cui Manzoni usa il cibo per dare corpo e sangue ai personaggi e alle scene: la sua conoscenza del mondo rurale e della civiltà contadina lombarda è approfondita e Don Lisander non sbaglia un dettaglio.
Il cavolo di Perpetua
La venne finalmente, con un gran cavolo sotto il braccio… Perpetua appare per la prima volta nel romanzo (nel capitolo 2) così, con quel cavolo enorme: un’immagine destinata a rimanere nella memoria di tutti i lettori. In Lombardia, a novembre, negli orti si potevano certamente trovare in abbondanza grossi cavoli-verza dalle foglie carnose. La loro presenza nella povera dieta contadina era costante e importante per l’apporto nutrizionale di vitamine e sali minerali; inoltre, i cavoli-verza si conservano piantati per tutto l’inverno, costituiscono un’ottima riserva di cibo e il gelo invernale contribuisce addirittura a migliorarne il sapore. I piatti della cucina lombarda a base di verza sono molti: con poche foglie si prepara una minestra gustosa (riso e verza); la classica casöra o cassoeula è a base di verze stufate insaporite con carne di maiale. Del cavolo si utilizzavano tutte le parti: le foglie stufate erano un gradito contorno, le più interne e bianche, tagliate fini, erano consumate crude in insalata. Perfino il torsolo (in lombardo chistù), adeguatamente ripulito, veniva dato ai bambini da sgranocchiare come una leccornia, e se proprio c’erano delle parti da scartare non venivano buttate ma date ai maiali. Con le foglie di verza appena appassite si faceva un involtino il cui ripieno era costituito da poca salsiccia, molto pane, un po’ di formaggio e uova. Arrostito con un po’ di burro o lardo diventava un manicaretto prelibato, tanto che questi involtini erano chiamati capù (“capponi”): il piatto povero, con un certo senso dell’umorismo, prendeva il nome del piatto ricco, cioè dei capponi veri.

La polenta di Tonio
La scena che si svolge nella casetta di Tonio (capitolo 6) è tra gli esempi emblematici dell’assoluta attenzione al contesto storico e all’ambientazione realistica che caratterizzano il romanzo. Manzoni dipinge un quadro che, se da un lato rilancia il tema della carestia, dall’altro testimonia la vita reale degli umili della civiltà contadina. Quando entra nella cucina di Tonio, Renzo trova il padrone di casa che, con un ginocchio sullo scalino del focolare, sta rigirando una piccola polenta. Intorno a lui, tre o quattro ragazzetti aspettano con gli occhi fissi al paiolo. In attesa intorno alla tavola stanno la moglie di Tonio, la madre, un fratello, e un convitato invisibile che aleggia sui volti di tutti: la fame, quella atavica di chi ha poco da mangiare e quel poco deve dividerlo con altri. La polenta è bigia, grigiastra: la coltivazione del mais, il classico cereale che rende gialla la polenta, fu infatti introdotta nel nord Italia solo dopo la storica carestia del 1628. Manzoni, esperto agronomo, si documentava con scrupolo su ogni piccolo dettaglio: la piccola luna bigia che appare sulla tavola di Tonio in un gran cerchio di vapori è una polenta di grano saraceno, una granaglia povera, come il miglio e la segale, che nel territorio lombardo era largamente usata ed è oggi alla base di piatti tipici come i pizzoccheri della Valtellina o la polenta “taragna”. La polenta era un alimento basilare nella dieta contadina delle valli e della pianura lombarde, tanto che Tonio non vede l’ora di poter riavere la collana d’oro della moglie data in pegno a don Abbondio per poterla barattare in tanta polenta.

I menu delle osterie
I menu delle osterie che Renzo visita nel corso delle sue avventure non sono casuali. All’osteria della Luna piena gli servono uno stufato. Costituito da pezzi di carne in umido, cotti a fuoco lento in un tegame di terracotta ben chiuso, lo stufato aveva il vantaggio di essere un piatto sempre pronto, facile da tenere in caldo tra le braci, a cui la prolungata cottura giovava perché rendeva morbida e saporita la carne poco pregiata che ne era l’ingrediente principale. Cotto in un intingolo, lo stufato è inoltre un piatto che si consuma con il pane. Le polpette dell’oste del villaggio sono anch’esse un piatto che si cucina con carne di poco pregio (gli avanzi del bollito, con aggiunta di altri ingredienti poveri) e hanno il vantaggio di poter essere servite anche fredde. Nel milanese sono tuttora un piatto tipico che ha conservato il nome antico di mondeghili. Nel Lecchese e nel Bergamasco sono denominate “polpette” anche gli involtini di lonza di maiale con il ripieno a base di salsiccia. Preparate al momento dell’uccisione dell’animale, venivano conservate immerse nel loro grasso di cottura in otri di terracotta in modo da poter essere semplicemente riscaldate al momento opportuno.

Il brodo di pollo
Nel capitolo 24, Lucia, dopo tutte le sue disavventure, è accolta nella casa del sarto. Si tratta di una domenica di festa grande per l’arrivo dell’arcivescovo di Milano e in pentola bolle il cibo più pregiato: il cappone, protagonista della tavola delle grandi occasioni. Questa circostanza fortuita permette alla moglie del sarto di poter ristorare la povera Lucia con una scodella di brodo guarnita di fette di pane. Si trattava di una precisa consuetudine alimentare: il brodo di pollo, con l’aggiunta di pane bianco, era il piatto riservato agli ammalati, ai convalescenti, alle puerpere e a tutti coloro che dovessero recuperare energie. A questo scopo si ammazzava di solito la gallina vecchia (che, secondo il detto, fa buon brodo), non certo il “nobile” cappone della festa, e con il pane si preparavano le varianti del piatto, eventualmente con l’aggiunta di formaggio grattugiato, uovo, burro: la zuppa, il pancotto, il pantrito. Anche la precisazione che i bimbi del sarto mangiavano ritti intorno alla tavola (lo stesso era avvenuto nella casa di Tonio) testimonia la cura del dettaglio e la conoscenza da parte di Manzoni degli usi e costumi popolari lombardi: i bambini mangiavano sempre in piedi, perché le famiglie erano generalmente numerose e intorno al tavolo sedevano gli adulti, gli uomini, e, se c’era posto, le donne, o almeno le più anziane tra di loro.
Don Lisander, il pigro goloso
Alessandro Manzoni, oltre che esperto di agronomia e botanica, era per sua natura sensibile al tema del cibo. Ammetteva di essere estremamente pigro, anche se percorreva ogni giorno a passo di carica almeno quindici chilometri. Amava i begli abiti eleganti di colore grigio o nero, giocare alla roulette e godere del buon cibo: i suoi debiti erano soprattutto con il salumiere e con il sarto.
Fra le ricette di carne prediligeva la testina di vitello glassata, ma impazziva soprattutto per i dolci e per la cioccolata. Quando il proprietario del forno delle Grucce, immortalato nei Promessi sposi, inviò delle sfogliate per esprimergli la sua riconoscenza per l’inaspettata pubblicità, Manzoni gli scrisse ringraziandolo del dono che lo gratificava nella gola e nella vanità. Come bevande gli piacevano il caffé e il vino: sembra che si fosse fatto realizzare un bicchiere più grande, in modo che, se qualcuno lo avesse accusato di aver bevuto troppo, poteva rispondere di aver bevuto solo due bicchieri.
VIDEO RICETTA DELLA SFOGLIATA ALLA MANZONI
PER APPROFONDIRE – LA STORIA NEL PIATTO. IL CIBO NEI “PROMESSI SPOSI”
- Michele Simoni, “I promessi sposi” e il cibo
- Alessandro Manzoni pigro goloso
- Alessandro Manzoni, I promessi sposi, a cura di Daniela Ciocca e Tina Ferri, A. Mondadori Scuola, Milano, 2016.
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In collaborazione con STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC