ARTECULTURA

La calma spaziale di Lucio Fontana

La calma spaziale di Lucio Fontana – La Fondazione Magnani-Rocca di Mamiano di Traversetolo ospita fino al 3 luglio l’esposizione di cinquanta opere di Lucio Fontana che, con il simbolico titolo “Autoritratto“, ripercorre il suo excursus artistico dal 1931 al 1967.

La mostra è arricchita dal filmato di un’interessante intervista fatta all’artista dalla storica dell’arte Carla Lonzi, in cui Fontana spiega, con il suo accento particolarissimo che è un misto di argentino e milanese, che i suoi buchi sono la creazione di una “dimensione infinita, un’x che, per me, è la base di tutta l’arte contemporanea“.

Lucio Fontana studia all’Accademia di Belle Arti di Brera dal 1920 al 1922 per poi andare a Buenos Aires a fare da assistente al padre scultore per quattro anni.

Tornato a Milano, dopo un tirocinio a Brera con Adolfo Wildt fino al 1930, comincia ad eseguire le prime sculture, esposte nella prima sala della mostra, in cui risulta evidente che la luce è un fattore determinante in tutte le sue opere a prescindere dal materiale usato (bronzo, latta, rame).

Un chiaro esempio di questa ricerca di dilatazione degli spazi tramite la luce si ha con il Fiocinatore degli anni 1933-34, in cui il corpo dell’uomo, totalmente ricoperto da una patina d’oro, si immerge nello spazio circostante rompendo i limiti posti dalla scultura.

Tra il 1940 e il 1947 Fontana è a Buenos Aires, dove redige con i suoi allievi il Manifesto blanco nel 1946 per arrivare poi, una volta rientrato a Milano, al suo Manifesto dello spazialismo.

Il movimento dello Spazialismo trova per certi versi punti di contatto con quello dei futuristi, anch’essi creatori di un manifesto che era stato pubblicizzato tramite riviste e locandine.

Come i futuristi, anche gli spazialisti assumono un tono profetico, parlano di arte nuova e di mezzi avanzati messi a disposizione dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche.

Lo Spazialismo vuole superare i limiti della bidimensionalità della tela, vuole dare ai materiali una capacità di esprimersi autonomamente, elabora il concetto spazio-materia descritto in particolare nel Manifesto tecnico dello spazialismo (1951), firmato dal solo Fontana.

Prendendo le mosse dalla sua teoria, Fontana crea nel 1949 la sua prima opera ambientale, Ambiente spaziale con forme spaziali ed illuminazione a luce nera, nella Galleria del Naviglio di Milano, che apre la strada a nuove forme di installazione.

Nello stesso anno, Fontana scopre il Concetto spaziale: pratica dei fori su un foglio di carta quadrata di un metro di lato, posto sulla tela. I fori sono disposti irregolarmente ma con un andamento a spirale, che ricorda le costellazioni o le nebulose.

La maggior parte delle sue opere successive si intitoleranno anch’esse Concetto spaziale, in quanto l’artista le riteneva tutte ispirate da una riflessione sulla scultura e sullo spazio attraverso altri mezzi.

Secondo Otto Piene,  i tagli furono frutto di un gesto casuale: durante un allestimento per un’esposizione a Roma nell’inverno 1958-59, Fontana, frustrato per una tela che non gli era riuscita, l’aveva squarciata, e subito dopo aveva capito la potenzialità del gesto.

In realtà, i tagli necessitano di una lunga preparazione sia della tela che dell’artista, anche se osservando le foto scattate da Ugo Mulas ed esposte nella mostra, non si ha quest’impressione. Forse quelle foto, però, sono l’ennesima provocazione dell’artista che per i suoi buchi e i suoi tagli era stato spesso denigrato. E lui ironicamente diceva: “Sennò continua a dire che l’è un büs, e ciao!”.

tagli possono sporgere verso l’esterno o verso l’interno: l’osservatore è chiamato ogni volta a confrontarsi con il vuoto, con l’infinità dello spazio, con dimensioni inesplorate.

Altro Concetto spaziale è rappresentato dalle Nature, grosse sfere irregolari percorse da buchi e scanalature, realizzate in creta e poi fuse in bronzo, presenze che dominano lo spazio intorno a sé come elementi primordiali.

Dopo le Nature, nella penultima sala della mostra, si stagliano dei quadri ovali dai colori accesi.

Fontana raccontava che, nel vederli, uno scienziato atomico gli aveva chiesto se fosse un esperto di matematica, perchè con quell’ovale aveva riprodotto la forma del mondo secondo le teorie di Einstein. L’artista commenta così: “E’ una forma che son stato un anno a studiarla, è la più semplice e la più modesta che ci possa essere … Niente: c’ha i suoi soliti buchi, questo spazio sempre mio ideale…Cambio le forme, uso legno laccato, latte laccate, materiali che sono anche di uso adesso…”.

Negli anni ’60, Fontana realizza opere su lastre di metallo, come Concetto spaziale, New York 10, del 1962, rame con lacerazioni e graffiti, che con i suoi giochi di luce riesce a condurci per mano nel bel mezzo della metropoli statunitense.

Nel 1963, Fontana realizza Concetto spaziale – La fine di Dio. Si tratta di 38 opere a olio, monocrome, su telai ovali cosparsi di buchi e a volte ricoperti di lustrini.

Il titolo scelto dall’artista fu ampiamente travisato all’epoca; in realtà, come spiega Fontana a Carlo Cisventi in un’intervista del 1963: “Per me significano l’infinito, la cosa inconcepibile, la fine della figurazione, il principio del nulla”.

E’ proprio una di queste opere ad aver raggiunto il prezzo record di 29 milioni di dollari nel 2015, grazie alla potenza evocativa che riesce a trasmettere.

Chiude la mostra una selezione di opere di artisti supportati da Fontana, come Baj, Burri, Castellani, Fabro, Manzoni, Paolini e Scheggi.

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Info:

Lucio Fontana

Autoritratto

Opere 1931-1967

Fondazione Magnani-Rocca

Mamiano di Traversetolo (PR)

Dal 12 marzo al 3 luglio 2022