Happiness come stile di vita: Michael Scarpellini

Happiness come stile di vita: Michael Scarpellini – Un’intervista dalle molte sfaccettature, dagli esordi di Michael Scarpellini, al sogno di un top shop, passando per la vita privata. La grande famiglia Happiness si racconta.
Da Michelangelo alle emoticon, si percepisce un attento studio al mercato e a cosa esso voglia proporre. Come avviene questa ricerca? L’ispirazione arriva dal mercato più giovane?
Le emoticon sono ormai diventate una forma di comunicazione e, considerato che Happiness è comunicazione, è fondamentale per noi usare questo trend e sfruttare il momento. Il nostro brand deve vestire dal teenager al cinquantenne, ricoprendo un’ampia scala di mercato, oltre che una vasta gamma di età. Happiness vuole essere un libro bianco dove tutti possono scrivere, è per questo motivo che lasciamo spazio agli artisti, liberi di comunicare quello che sentono attraverso i nostri vestiti.
Come è nata la collaborazione con Vittorio Sgarbi?
Volevamo dare credibilità ma soprattutto valore ai pezzi d’arte disegnati dai nostri artisti. La collaborazione con Sgarbi è stata ironica, ma allo stesso tempo efficace. Quando tratti l’arte, e noi lo facciamo attraverso le magliette, vuoi trasmettere qualcosa.
Nuove collaborazioni in vista?
Avremo una capsule collection con Colmar, lavorando sempre sul made in Italy, la nostra filosofia vive attraverso il lifestyle positivo, e in Colmar ho trovato un brand sano: Colmar è un’azienda con la passione della montagna, dello sport e del benessere, così abbiamo creato una linea F/W 2016.
Come è stata l’esperienza studio in America?
Studiare in America è il giusto mix tra arte e l’esclusione del superfluo che l’Italia a volte propone, quindi si riesce ad arrivare dritti al business. Oltreoceano si configura una realtà totalmente nuova, lavorare in gruppo in modo pratico, creando non solo mentalmente, ma sviluppando materialmente i prodotti. Anche la lingua ha un aspetto estremamente fondamentale: lavorando in inglese hai la possibilità di aprire più porte in diversi mercati.
L’incontro con tua moglie Eiman ti ha cambiato totalmente, sia a livello personale che lavorativo. Che cambiamenti ha portato nella tua vita?
Tutto è nato nella classe di matematica all’Università di Los Angeles. Con noi è nato Happiness che non è solo un brand, ma anche motivazione, forza e creatività. Abbiamo inizialmente pensato alle t-shirt a 10$, sviluppando poi i nostri prodotti in una collezione vera e propria, distribuita in tutto il mondo. Abbiamo iniziato nel 2007, vendendo le magliette ai nostri compagni dell’università, poi a Rimini abbiamo aperto un negozietto e, continuavamo a fare sold out; da qui abbiamo portato le nostre creazioni alla Fashion Week di Milano, i buyer sono impazziti per i nostri prodotti. Il brand è poi entrato in distribuzione nel mondo della moda, sviluppandosi di giorno in giorno.
La linea di abbigliamento per neonati è ispirata a tuo figlio?
Avevamo già una licenza Happiness Kids, prima dell’arrivo di Zeyd ma, oggi questa linea è interamente ispirata alle esigenze e alle necessità di mio figlio ma anche dei genitori. Ora sarà sicuramente più completa e comoda per le madri e i padri. L’abbiamo voluta fortemente, crediamo molto nel mercato kids, è estremamente importante per noi.
Ora ti dividi tra USA e Italia, dove ti senti più casa?
Dove c’è la mia Happiness Family. In America, in Italia, in Giappone, mi sento sempre a casa quando sono circondato dalle persone che lavorano con me; siamo giovani e abbiamo creato davvero una grande famiglia sin dall’inizio. Quando lavori nel campo della moda, il mondo è tutto uguale.
Come ti vedi tra 10 anni?
Vedo Happiness di fianco ai top shop per eccellenza. Il nostro brand rappresentante del mercato italiano, un po’ come è successo a noi personalmente: siamo partiti dalle t-shirt a 10$ per poi arrivare ad un pubblico ben più ampio.
Raccontaci qualcosa della vostra nuova collezione Happiness.
Si ispira a Frida Kalho, al Messico, alla storia ma anche all’etica e all’arte. Vogliamo liberare il caos, è per questo che l’abbiamo battezzata Free the Khaos.
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