FOLCO ORSELLI: UNA MILANO IN BLUES

FOLCO ORSELLI: UNA MILANO IN BLUES –
Folco Orselli è un cantautore milanese, che ama raccontare frammenti di storia meneghina con un gusto retrò, figlio di un genere cantautorale in via di estinzione e frammisto a una lirica poetica raramente riscontrabile nella produzione discografica italiana attuale. In questa intervista ripercorriamo la carriera dell’artista attraverso le tappe segnate dai suoi 5 album prodotti, dal 1997 (“La stirpe di Caino“) al 2015 (“Outside is My Side“).
Partiamo dal 1997, dove incontriamo un Folco che urla come un matto alla luna in “La stirpe di Caino”: si scorgeva già un artista estremamente dotato, sebbene dal potenziale ancora parzialmente inespresso; lo stile “urlato” è stato funzionale al portare alla ribalta un cantautore originale e “outside”. Da questo disco nascono brani come Senza neanche una lira o Il crogiulo o Bell’occhio, alcuni dei quali hai ripresi in album successivi. C’è qualche brano in particolare che ha un significato importante per te?
Questo album segna uno spartiacque importante, tra quello che ero e quello che ho iniziato a essere. Provenivo da anni di peripezie, mi ero presentato anche a Sanremo, avevo già inciso un disco con la EMI, ma alla fine sono stato scalciato fuori da quel mondo di tacco e di punta. Era un periodo in cui mi sentivo davvero sbalestrato e ho passato un anno terribile: avevo 25 anni, avevo fatto da spalla a Tina Turner, Zucchero, avevo fatto tourné… Insomma, ero all’inizio di una carriera da musicista. Poi, da un momento all’altro, sono stato cacciato dal mainstream. Per un anno sono andato in crisi, ma ho sempre tenuto duro, fino a quando non sono riuscito ad avere un rigurgito di rabbia: “Adesso vi faccio vedere cosa vi siete persi!”. Questo disco è la mia dichiarazione di guerra: avevo proprio bisogno di urlare al mondo la mia esistenza, anche in modo un po’ scomposto. È stato un vero e proprio esperimento: Bell’occhio, per esempio, è scritto in quartine, e quasi tutti i pezzi sono teatralizzati. Era un modo di appendermi ai miei modelli del tempo.
“La spina” è l’album che ti ha fatto conoscere al grande pubblico. Lifegate Radio produce questo album e Blues per lei spacca alla radio per la sua potenza rauca e i rimandi a Tom Waits e Buscaglione.
Probabilmente l’esuberanza di “La stirpe di Caino” è stata notata da qualcuno e ho finito per conoscere Roveda di Lifegate Radio; lui e il suo staff mi propongono un salto di qualità: “Perché non facciamo un disco prodotto bene, con tutti i crismi?”. Era il 2004 e per me era un periodo floridissimo, sempre pungolato da quello spirito di rivalsa che mi ha sempre connotato. Io mi chiamo Folco perché sono un uomo del popolo, “Folk”, un popolano combattente contro i poteri forti. Ho subito abbracciato la proposta di un disco fatto come si deve ed è nato, appunto, “La spina”. Oltre a Blues per lei, c’è Pallottole d’amore, un pezzo usato in un film di Soldini, ma anche L’amore ci sorprende, che mi ha fatto vincere tre importanti riconoscimenti. Si tratta di un album a cui mi sento molto affezionato ed è anche il disco ancora oggi più amato da chi mi segue, con tutto il suo naïf e il suo vissuto. Anche qui si avverte molto l’influenza di Waits e il senso di rottura con la critica: esisteva già qualcuno che si proponeva in quel modo (Vinicio Capossela) nel 2004, e io davo fastidio perché pensavano che io cercassi di ritagliarmi uno spazio a suo discapito. Invece, se è vero che abbiamo maestri comuni, non regge assolutamente la proprietà transitiva per cui A=B, B=C, C=A. Siamo due artisti diversi, con una produzione musicale differente e definita.
“MilanoBabilonia” introduce una fase più rock della tua carriera. C’è l’apocalittica La fine del mondo, ma ci sono anche quei personaggi naïf che ti piacciono tanto, come Jimmy Corea. Infine anche qui si ritrova un brano mutuato da “La stirpe di Caino”, Il crogiuolo.
“La stirpe di Caino” ogni tanto rispunta fuori… Con “Milano Babilonia” ho cambiato band e ho iniziato a suonare con un gruppo di jazzisti, artisti molto preparati con cui suonavo già da anni, il cui talento ha influenzato naturalmente anche il mio lavoro di cantautore. Ho avuto la possibilità di sperimentare cose diverse: abbiamo approcciato con maggiore intensità il funk e il blues. “Milano Babilonia” è stato un album necessario, che ha chiuso le bocche di chi mi definiva un emulo di Capossela: con questo album ho dato prova di saper spaziare tra i generi e sottogeneri musicali, senza farmi omologare sotto una descrizione standardizzata di genere.
“Generi di conforto” rappresenta la maturità artistica: è un pasto completo che vede la concertazione di strumenti e musicisti in un ensemble molto ricco. Una Milano graffiata da un realismo quasi verghiano, che, sotto il manto della poesia, cela storie di cruda vita vissuta.
Qui c’è l’incontro con Enzo Messina: Enzo usciva da un periodaccio della sua vita e io avevo l’esigenza di provare altre strade. Ho cambiato di nuovo band: sai, i musicisti sono come gli amori, possono nascere, crescere e poi finire, pur rimanendo amici. In quel periodo avevo bisogno di altri stimoli e di altre persone con cui confrontarmi. Prima di suonarli e produrli, dei dischi bisogna soprattutto parlarne! Io ed Enzo ci conoscevamo già bene: aveva suonato l’hammond in “Milano Babilonia” e avevamo fatto il tour insieme. Abbiamo sempre avuto affinità elettive formidabili: sul blues, sul modo di intendere la musica e, per alcuni aspetti, anche la vita. Lui usciva da un periodo di disintossicazione dall’alcol e aveva un intenso bisogno di rimettersi in attività, io avevo evidentemente bisogno di una persona come lui, capace di mettersi in gioco e di abbracciare una nuova sfida insieme a me. Ne è nato un film, un album-film, da cui traspare la visione comune della cinematografia: è una colonna sonora di un film che non esiste, se non nelle nostre teste. Con “Generi di conforto” ho iniziato a togliermi qualche maschera, per essere meno naïf e un po’ più me stesso.
“Generi di conforto” mi ha ricordato la frase finale de “Il nome della rosa” di Umberto Eco: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus“. Al di là della traduzione letterale, quello che qui interessa è il gusto per una dimensione meneghina passata, d’antan, ormai scomparsa tra le nebbie della modernità e le luci dei nuovi grattacieli milanesi. Secondo una delle possibili interpretazioni, il significato della frase è che oggi ci rimane in mano soltanto il nome (cioè l’involucro) delle cose importanti del passato: ricordiamo solo i nomi nudi, ma non possediamo le sensazioni che hanno reso importanti quei momenti passati. In riferimento alla tua produzione musicale, è, a mio parere, più vero il contrario: la dimensione meneghina che così sovente racconti nelle tue canzoni è palpabile e trasmette sensazioni che rimandano a un passato vero, vissuto.
Delle stanze a me piace quello che rimane su un piano spirituale. Mi interessano i fantasmi delle persone e delle sensazioni che hanno abitato quelle stanze: sono molto più importanti le energie dei luoghi anziché la mobilia e gli arredi. Non è facile da riportare in una canzone: spero di riuscirci ogni tanto.
Siamo arrivati al tuo ultimo disco, “Outside is My Side”, fresco fresco di stampa. Certo che tu fai proprio di tutto per disorientare i tuoi ascoltatori, da un disco con l’altro, ed è una cosa che apprezzo molto in te. Ogni tuo album ha un carattere e un fenotipo unici: ripercorrendo la tua discografia, si ha l’impressione di affrontare un viaggio attraverso tipologie musicali sempre cangianti, ma eccezionalmente significanti tra loro. Qual è il messaggio alla base di “Outside is my side”?
Dopo tutto quello che ti ho raccontato, ora, a 44 anni, credo sia giunto il momento di dichiarare da che parte sto. Se “inside” rappresenta un mondo che presuppone che per fare musica oggi sia necessario piegarsi alla spettacolarizzazione dei talent-show, per via del fatto che le case discografiche non producono più nulla di originale, se non qualcosa di mutuato dalla tv, allora la mia parte è “outside”. Se questo è il re, esso è nudo e ce l’ha pure piccolo (il talento, n.d.r.)! Oggi vengono scaraventati sulla ribalta giovani vittime che fino a due mesi prima facevano un lavoro completamente diverso: non hanno colpe, sono solo vittime dei cingoli di un sistema che ti stritola, facendoti credere che farai il grande salto. E allora outside is my side! Non dico che questo tipo di produzioni non debbano esistere, dico che però va fatta necessariamente una scelta libera, tra ciò che è standard e tra ciò che vuole andare oltre il gusto preconfezionato. Fuori dalle maglie del sistema esiste un mondo affascinante e ricco di possibilità, così come di difficoltà. Se io producessi vino, preferirei imbottigliarne 1000 bottiglie anziché 10.000, magari allungandolo un po’. Certo, guadagnerei di meno, ma produrrei un vino eccellente e sarei contento di darlo proprio a te. Chi si comporta così è un outsider: questo è tempo di “outsiding“!
Il primo brano del tuo nuovo disco, Legato a un palo della luce (Gatto rotto ouverture) è una sorta di rap-psichedelico-orselliano, che rimanda a una psichedelia pinkfloydiana che ho ritrovato spesso nel tuo gruppo “Arm on stage”. È una commistione voluta?
Il testo l’ho scritto qualche anno fa e il giro di accordi risale a circa due anni fa. Era un pezzo che avevo proposto agli “Arm on Stage”, ma che non è poi finito nel loro disco. Il pezzo qui proposto è un pop-rock che Enzo Messina ha rivisitato e riarrangiato. A me è piaciuta subito la stranezza del brano, con i suoi due blocchi molto differenti tra loro. Mi piace molto che l’inizio dei miei dischi sia spiazzante per l’ascoltatore e mi fa piacere pensare che chi ascolta il mio ultimo disco si chieda cosa potrò mai sfornare la prossima volta.
Una vecchia storia (d’amore di noi) è un brano orselliano classico: si innesta nel solco di Pallottole d’amore, Avara Mara (Amara Mara) e In equilibrio (cadendo nel blues).
L’idea è quella di darti prima una sferzata (con “Legato a un palo”, n.d.r.) e poi regalarti qualcosa che già conosci: mi piace riproporre ogni tanto un blues più familiare. Io ed Enzo abbiamo voluto omaggiare un mondo che amiamo tantissimo, quello di Joe Cocker, Randy Newman, con i loro racconti di vita frammisti al blues che continuano ad affascinarci.
Magari c’entrerà poco, però il falsetto de Il lupo mi ha ricordato il Brian Johnson degli ACDC. Ecco, magari un po’ meno esasperato. Qui siamo di fronte a Cappuccetto Rosso che grida “aiuto!” e il lupo che risponde cinicamente a tono. Come mai questa rivisitazione “ubriacona” (visto “l’alito corretto” del lupo) della fiaba di Perrault?
Qualche anno fa avevo letto un articolo che informava che in Garfagnana stavano sterminando un intero branco di lupi, che di notte, affamati, scendevano a valle a fare razzia di pecore. A me è andato il sangue alla testa: che il lupo mangi la pecora è naturale, eppure si merita per questo la morte. L’uomo invece, che in molti casi fa scempio del pianeta su cui vive, deve farla sempre franca? Animato da questo pensiero ho voluto dare voce al lupo (un lupo psichedelico, che dice cose un po’ strane…), che ci prende anche un po’ in giro. Vuole dirci che il vero lupo siamo noi! È un lupo che si è antropomorfizzato e, incarnando molti difetti umani (beve, si pavoneggia, cerca di fare colpo…), ci avvisa che in realtà la cattiveria sta da tutt’altra parte.
Gli artisti di strada è un tuo leitmotiv, una tua passione che parte fin da “La stirpe di Caino”. Perché per te è così importante questa tematica?
L’artista di strada è una figura che mi ha sempre affascinato, fin da bambino. Ero terribilmente attratto dai madonnari, che, con le mani sporche di gessi colorati, disegnavano immagini sacre per terra. Ecco, per me quell’immagine rappresentava la libertà, la possibilità di fare quello che ti passa per la testa. Ai tempi nostri, devo dire che la strada è forse diventata più accogliente della televisione e dei club. Ho personalmente incontrato più talento per strada che non in televisione. Ecco, in Italia è ancora abbastanza difficile trovare per strada gente davvero capace, ma se giri per la Francia, per esempio, ne trovi di bravissima. La grande madre strada, che ti permette sempre di guardare chi ti passa davanti e di incrociare il suo sguardo, incarna un ritorno atavico all’origine del senso di appartenenza dell’artista.
La voce graffiata e quasi alla Paolo Conte di Vecchi vestiti nuovi accarezza l’ascoltatore fin dalle prime battute, ricordando a tratti le sonorità oniriche di Iruben me di Zucchero. A chi pensavi quando l’hai composta?
È un altro pezzo che avevo scritto per gli “Arm on Stage”, che però non ha avuto un seguito. Partiva da un gusto un po’ “Eighties”, un po’ anni Ottanta, che durante gli anni Novanta tutti disprezzavamo. Poi, quando abbiamo visto gli anni Duemila ci siamo detti che dopo tutto gli anni Ottanta non erano poi così male… Quella era l’idea di partenza e infatti ho anche lasciato l’attacco in inglese. La tematica di fondo invece è ancora una volta l’amore, ma un amore malinconico, un amore che esplode nella grandezza di quel preciso momento. Nel mondo ci sono 7 miliardi di persone: amore mio, siamo qui io e te, ma sei proprio sicura che, tra tutte le persone esistenti, sia davvero io quella migliore per te? Sono sicuro che ce ne saranno almeno migliaia di persone migliori di me. E allora come ci regoliamo? Come la viviamo questa situazione? Facciamo finta di niente o…? Dobbiamo per forza fare finta di niente, ma come ci sentiamo dentro, ora che ne siamo consapevoli?
La voce nel megafono di Piove mi ha ricordato One More Kiss, Dear di Vangelis. In “Blade Runner” un simile brano aveva una valenza sincretica, per via della distonia rispetto a una colonna sonora omogeneamente “futuristica”; in “Outside is my Side”, invece, la trovo perfettamente aderente al blues metropolitano che caratterizza molti tuoi brani.
Quella voce fuori campo proviene da un’immagine che si è fatta sempre più strada nella mia testa. Mi sono immaginato un uomo in una cabina telefonica, sotto una pioggia battente, che telefona in una casa vuota, che lui ha lasciato da qualche mese o da qualche anno, in cui ha vissuto momenti felici, e che ora è vuota. L’uomo vuole soltanto che la propria voce risuoni all’interno di quelle stanze in cui lui è stato felice. Anche se in quel momento in casa non c’è nessuno, l’uomo vuole che la sua voce si avvicini a quei libri, a quei mobili, a quel tavolo che per lui rappresentano frammenti di felicità. È una canzone profondamente malinconica: l’uomo si rende conto di non essere stato in grado di riconoscere che la felicità era a portata di mano, quando viveva in quella casa; se ne rende conto adesso, quando ormai tutto è passato.
E poi un’altra frustata: Hooligan ritorna al rock duro di “Milano Babilonia”. Ci stai di nuovo avvisando che è giunta La fine del mondo?
Qui è giunta una fine del giorno! Con questo brano io ed Enzo cerchiamo di esorcizzare quelle nottate brave che entrambi abbiamo vissuto sulla nostra pelle. Abbiamo voluto ricordare quei momenti in cui si è preda degli elementi chimici, che ti fanno sprofondare in una voragine. Ti ritrovi in luoghi oscuri in cui tutto diventa un mostro, che parla, ti confonde, assume svariate forme e prende infine possesso di te. Quando finalmente riesci a guadagnare l’uscio di casa, ti guardi allo specchio e vedi proprio la bestia che da dietro il tuo volto sconvolto sghignazza felice di averti distrutto. È la metafora della lotta intestina con se stessi.
Foglie, un altro brano toccante. Cosa ci dici?
La musica non è mia, ma è di Pancho Ragonese, che ha lavorato tanto con me nelle band passate. È un pezzo che avrebbe dovuto entrare in “Generi di conforto”, ma che poi, per una questione di equilibrio del disco, abbiamo deciso di sacrificare. Questo brano mi permette di approcciare la musica in un modo più “crooner”, più da interprete, con soluzioni armoniche più ampliate rispetto alle mie (Pancho è un jazzista, io sono un bluesman). “Foglie” è molto difficile da cantare, perché la linea melodica è stata creata per la tromba di Pepe Ragonese, il fratello di Pancho, con un’estensione particolare. Io ho mantenuto quella linea melodica con la voce e ho dovuto davvero impegnarmi per arrivare a prendere tutte le note!
Le spose mie riprende una cadenza ritmica già approcciata in Balla di “Generi di conforto”: molto cantautorale, ispirata.
Anche questo è un pezzo che ho scritto molto tempo fa, circa vent’anni fa, ma in tutti i dischi che ho prodotto fino a oggi, non ci stava mai bene. È una canzone molto diretta, molto sincera che racconta i miei peccati in una allegoria femminea; è un brano quasi “fossatiano”, lontano da quello che scrivo normalmente. Ed è infatti molto simile a Balla, un altro pezzo abbastanza anomalo nella mia produzione musicale, entrambe con l’accordatura aperta in MI maggiore.
In “Outside is my side” abbiamo anche un omaggio, Quello che canta Onliù.
È un brano di Enzo Jannacci, uno dei miei più grandi riferimenti, probabilmente il mio primo maestro: quand’ero piccolo, mio padre mi faceva ascoltare questa canzone di Jannacci durante gite domenicali sulla sua macchina. L’audiocassetta veniva riprodotta senza soluzione di continuità e, ogni volta che arrivava Quello che canta Onliù, mi trasmetteva una malinconia non comune a dieci anni. Mi ha preparato alla vita. Dopo la sua scomparsa, ho deciso di omaggiarlo per cercare di restituire tutto quello che mi ha insegnato con questa canzone.
Il bisticcio linguistico di Song pour elle chiude il disco con un momento toccante e riflessivo alla Ballata del Paolone. Quale storia ci racconta?
È la storia di un amore non ricambiato. Tutti noi abbiamo il ricordo di sforzi epici volti alla conquista di una persona franati tragicamente nel nulla. Ho cercato di trattare la semplicità del tema in un modo epico. È una storia molto milanese, con un alone di fallimento che ti accompagna per tutto il pezzo. Volevo chiudere l’album con una nota amara, malinconica, dopo avere percorso tutto lo spettro di sfumature ritmiche possibili, dal “casino” di Legato a un palo della luce fino a Song pour elle.
LINK UTILI
GALLERY FOLCO ORSELLI: UNA MILANO IN BLUES
VIDEO FOLCO ORSELLI: UNA MILANO IN BLUES
- Folco Orselli – Una vecchia storia (d’amore di noi)