CLAUDIO NINIANO: UNA VITA TRA VIAGGI E MUSICA

CLAUDIO NINIANO: UNA VITA TRA VIAGGI E MUSICA –
Compositore, cantante, polistrumentista… Claudio Niniano è un artista eclettico e versatile che ha trascorso la sua vita tra musica e viaggi. In occasione dell’uscita del suo ultimo lavoro, Deserts, lo intervistiamo e cerchiamo di conoscerlo da vicino.
Ci racconti dei tuoi esordi? Quando hai iniziato a interessarti alla musica?
Devo dire che io ho sempre respirato musica in casa, soprattutto grazie a mia mamma, che cantava. Da noi la musica non era un semplice sottofondo; si viveva la musica non appena era possibile: nei viaggi in macchina, così come a casa, ascoltavamo canzoni di grandi interpreti italiani, da Mina a Bennato, a De Gregori, e questo ebbe una grande influenza su di me. Poi alle medie, come orientamento musicale, scelsi il violino e lo studiai per tre anni. Tuttavia questo strumento non riusciva ad appagarmi: ero nell’età in cui si iniziano ad ascoltare gruppi rock e metal, quindi iniziai a interessarmi sempre più alla chitarra, che studiai in contemporanea al violino. E così iniziai anche a cantare sopra quei primi accordi, quelle prime note, e scoprii che mi piaceva molto: ricantavo le canzoni della tradizione cantautorale italiana e le riarrangiavo vocalmente eseguendo delle variazioni sul tema. Di conseguenza, provai a comporre le mie prime canzoni. Avevo 14 anni.
Oggi sei un musicista adulto e la tua musica riflette necessariamente le tue esperienze di vita. Qual è o quali sono i generi musicali cui oggi ti senti più affine?
Questa è una di quelle domande “tricky”: perché in realtà i generi musicali non esistono. Le note sono sempre quelle (a livello di struttura musicale occidentale), ma cambia il modo di arrangiarle, attraverso le diverse timbriche di ogni strumento e le diverse ritmiche. Considerando la musica che ho scritto finora, i grandi cantautori che mi hanno più influenzato sono quelli della cultura afro-americana. A partire dai vecchi bluesmen del delta del Mississippi agli inizi del secolo scorso, come Robert Johnson, Lead Belly, Lightnin’ Hopkins, personaggi che con una chitarra e una voce facevano tutto. È stata poi per me importante anche la contaminazione con la musica irlandese e i grandi del folk, come Bob Dylan, fino ad arrivare a musicisti più attuali, come il Bruce Springsteen acustico di Nebraska, The Ghost of Tom Joad, Devils & Dust. Oggi sto riscoprendo i grandi cantautori italiani, perché mi piacerebbe scrivere qualcosa in italiano. Non è finita: grande influenza ha avuto anche il jazz, con giganti come Chet Baker e Miles Davis. Amo rompere l’armonia di fondo, introducendo elementi originali o poco convenzionali nelle mie canzoni.
Dal 2011 cambi modo di intendere la vita (professionale e personale) e abbracci lo stile busker. Che cosa significa proporsi e vivere da busker?
Avevo voglia di mettermi alla prova e mi allettava suonare qualcosa che a Milano è generalmente difficile proporre ai locali. All’estero è molto radicata la realtà della musica di strada: ho visto tanti artisti nei miei viaggi che suonavano per strada e questa modalità espressiva mi ha sempre molto affascinato. Così ho cominciato a propormi per le strade di Milano: all’inizio in zone poco battute nei sotterranei della metropolitana, suonando senza amplificazione, poi mi sono informato sui permessi, visto che quell’esperienza mi metteva a mio agio, e ho regolarizzato quell’attività, suonando in zone di maggiore passaggio. Ho così compreso che suonare per strada mi faceva stare bene, perché mi dava la possibilità di esprimermi al meglio, senza costrizioni, ottenendo dal pubblico occasionale un feedback immediato. Sono ormai sette anni che mi propongo anche in questo modo, nonostante la mia attività di musicista comprenda anche altre direzioni, come locali, eventi privati, festival ecc.
A Few Lines è un album profondo e introspettivo. Quali esperienze, aneddoti, sensazioni ti hanno portato a comporlo?
È il risultato di tanti anni di studio e di tanti anni di viaggi. In questo album è particolarmente racchiusa la mia esperienza di vita negli Stati Uniti, dal coast-to-coast da New York a San Francisco con i bus Greyhound, alla mia permanenza a New York, dove sembra di essere al centro del mondo. In questo disco ho anche raccolto una serie di canzoni che avevo scritto anni prima: le ho selezionate e le ho raccolte in A Few Lines.
Con Sun on the Ruins scivoliamo insieme alla tua musica in un mare calmo, direi autunnale, quando la luce del sole è meno violenta e si riflette sull’acqua con giochi di luce che filtrano dalle nuvole. Come sei arrivato a comporre gli 11 brani che lo compongono?
Questo album è stato concepito in molto meno tempo rispetto a quello precedente: se A Few Lines ha avuto una gestazione durata parecchi anni, Sun on the Ruins ha richiesto un anno di lavoro. A livello tecnico c’è una ricerca maggiore sulle sonorità della chitarra acustica, con accordature differenti per produrre timbriche che mi dessero quel colore che stavo ricercando. A livello di impatto sonoro ero alla ricerca di qualcosa di introspettivo ma che al contempo fosse coinvolgente quasi come il pop. Per esempio, Your Fire è un brano molto più attuale rispetto a diversi brani di A Few Lines, che hanno richiami molto più blues, e quindi con radici più antiche. Avevo voglia di scrivere qualcosa di fresco che trasmettesse quella sensazione di rinascita che vuole trasmettere tutto il disco: quando il sole arriva a splendere sulle rovine, ci fa pensare che non è ancora finita e si può ricominciare.
E siamo arrivati alla tua ultima fatica, Deserts. Qui siamo immersi nella natura, anche se si tratta di una natura talvolta crudele, poco incline a incoraggiare la vita. A tratti si scorgono sonorità che rimandano ad alcuni splendidi lavori di Ry Cooder degli anni ’80 (su tutti, Paris Texas e Alamo Bay). Ci racconti come nasce Deserts?
Innanzi tutto grazie per il riferimento a Paris Texas! Deserts nasce da un viaggio in Mongolia in cui ho trascorso un mese intero in contemplazione di spazi sconfinati. La morfologia di quel territorio attorno a me ebbe una risonanza molto intensa nella mia morfologia interiore. Ho così cercato di scrivere un disco che potesse essere godibile a chiunque si metta delle cuffie e si isoli contemplando l’orizzonte e gli spazi aperti. La musica qui diventa un mezzo per proporre panorami geografici, suscitando impressioni spaziali. All’interno dei testi ho cercato di far sì che il deserto travalicasse il concetto di spazio fisico, ma che arrivasse a raccontare i momenti di solitudine e vuoto tra le persone, anche all’interno di relazioni consolidate. Deserts è dunque un concept-album, dove il deserto viene visto da diversi punti di vista e sotto diverse accezioni.
Lavorando sul tuo profilo e considerando la tua attitudine alla continua ricerca del nuovo, dell’originale, mi è venuta in mente una citazione da Amorosa Presenza, un romanzo del 1978 di Vincenzo Cerami: «Devo badare di più a cosa m’interrompe la consuetudine, perché su questo formo il futuro». Ti ritrovi in queste parole?
Sì, devo dire che mi ci ritrovo molto. Durante una normalissima giornata, mi capita talvolta che la mia attenzione venga rapita da qualcosa di inaspettato o insolito. E quel qualcosa potrebbe essere un’idea, uno spunto, un input per creare qualcosa a livello musicale. Che sia un fraseggio musicale o una frase per il testo di qualche futura canzone. Esistono dunque diversi micro eventi nell’arco della giornata che possono spezzarne la routine, rendendola molto ricca e dandole un senso. Il concetto chiave della citazione in cui io mi ritrovo particolarmente è “prestare attenzione” a ciò che mi circonda.