ARIBERTO: AMBIZIONE E VOLONTÀ

ARIBERTO: AMBIZIONE E VOLONTÀ –
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In collaborazione con la prestigiosa rivista STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC, riviviamo la storia di un indiscusso protagonista della storia di Milano, Ariberto da Intimiano, che per affermare il proprio potere e quello della diocesi ambrosiana lottò contro tutti: l’imperatore, il papa, la nobiltà, il popolo.
ARIBERTO: AMBIZIONE E VOLONTÀ
Ariberto da Intimiano fu un grande protagonista della storia di Milano e una delle figure più caratteristiche della Chiesa del Medioevo. Invaso da un’ambizione senza freni, personalità forte e ambiziosa, colto mecenate, durante il suo episcopato (1018-1045) portò a livelli altissimi il prestigio della Chiesa ambrosiana, perseguendo con tenacia la tutela dei suoi diritti, delle sue prerogative e del suo patrimonio.
Il custode di una pieve di campagna e una falsa reliquia
Nato intorno al 970-980, Ariberto apparteneva alla nobiltà briantea: la sua famiglia, molto potente, era proprietaria, oltre che di beni nel territorio bergamasco, anche di numerose corti in Brianza, compresa quella di Antimiano (o Intimiano o Antegnano) presso Cantù, dalla quale prendeva il nome. Le corti erano un insieme di ville ed edifici costruiti intorno a un’aia o a un cortile, dove il signore soggiornava ed esercitava le sue funzioni di comando sul territorio. Nel 1007 Ariberto fece ristrutturare e riconsacrò la pieve (una chiesa rurale, dal latino plebs, “popolo”) di San Vincenzo a Galliano (Cantù), della quale era custos. Anche se non è chiaro in che cosa consistesse di preciso questa carica di “custode”, si sa invece che Ariberto vi trovò delle reliquie, tra le quali si pensava che ci fossero quelle di Sant’Adeodato, il supposto figlio di Sant’Agostino. Si trattava invece di un sacerdote morto nel 525 e scambiato per il figlio del santo per un’errata interpretazione dell’iscrizione sepolcrale. Il presbiterio venne rialzato per ricavare una cripta nella quale deporre i corpi dei santi e l’abside fu decorata con affreschi, nei quali è rappresentato lo stesso Ariberto che dona il modello della chiesa.
Genesi del potere dei vescovi
Per comprendere la storia di Ariberto bisogna considerare il contesto storico che si era progressivamente delineato da quando, nel 774, i franchi, guidati da Carlo Magno, avevano cacciato i longobardi e si erano impadroniti dell’Italia. A Milano era stato assegnato un conte, meno indipendente dal potere imperiale di quanto non fosse il duca longobardo, nonostante avesse potere politico, giudiziario e militare. Il conte aveva diviso le terre tra i suoi feudatari, liberi di spadroneggiare e forti delle loro prerogative e diritti assoluti e dispotici. Tuttavia, l’ordinamento di Carlo Magno consentì che, accanto a quella del conte, crescesse un’altra autorità: quella del vescovo. Carlo e i suoi successori avevano bisogno degli ecclesiastici per consolidare il loro dominio: i missi dominici, sorta di ispettori supremi, percorrevano quattro volte l’anno l’impero, vigilando sull’esecuzione delle leggi, controllando l’amministrazione e il governo delle contee, esercitando la giustizia. Pari in dignità ai principi che si trovavano al vertice della gerarchia feudale, i vescovi dipendevano direttamente dall’imperatore ed erano ammessi alle assemblee nazionali (“campi di maggio”). Inoltre, le ampie immunità concesse al vescovo su molti beni fecero passare nelle sue mani gran parte della giurisdizione che prima spettava al conte o ai signori.
Dateo e Ansperto
Il popolo preferiva mettersi sotto la protezione vescovile, perché non era straniera e, nella maggior parte dei casi, si rivelava più equa e attenta ai suoi bisogni. Per esempio, a Milano, l’arciprete Dateo, nel 787, predispose un lascito per fondare un ospizio per i trovatelli: il primo al mondo, sembra, di questo genere. L’arcivescovo Ansperto (868-881), inoltre, aveva accentrato su di sé molte aspirazioni popolari, e sotto di lui le mura erano state fortificate ed erano stati costruiti nuovi edifici, come la basilica e l’ospedale di San Satiro. Inoltre, ai tempi di Ansperto non si parlava quasi più del conte oppure, quando esso era nominato, lo era dopo l’arcivescovo. L’influenza del vescovo di Milano, che proprio in questi tempi comincia a chiamarsi arcivescovo, diventava sempre più forte, mentre l’autorità imperiale, con i deboli successori di Carlo Magno e con gli imperatori tedeschi, eredi di quella corona, perdeva vigore.

Ariberto contro il concubinato dei chierici. Una calunnia
Ai tempi di Ariberto si contrapponevano due schieramenti: da una parte la feudalità laica, intenzionata ad abolire il potere ecclesiastico e a restituire alla nobiltà guerriera il diritto di eleggere il proprio re (che chiamavano “re dei longobardi”), dall’altra i vescovi-conti, pronti a difendere i propri privilegi. Durante lo scontro tra Arduino d’Ivrea, incoronato a Pavia nel 1002 dai feudatari italiani e dal clero riformato cluniacense, ed Enrico II di Sassonia, sostenuto dai vescovi-conti e incoronato a Pavia dall’arcivescovo di Milano nel 1004, Ariberto si fece notare tra i partigiani del secondo. Nel 1014 Enrico II venne incoronato imperatore a Roma e nel 1018 il suo sostenitore Ariberto fu consacrato arcivescovo di Milano. Nell’agosto 1022, in un concilio a Pavia, presieduto da papa Benedetto VIII e alla presenza dell’imperatore, Ariberto, a sancire la sua autorità, volle sottoscrivere subito dopo il papa i provvedimenti contro i chierici sposati e concubinari. I motivi non erano solo religiosi: i figli degli ecclesiastici ereditavano i beni del clero e in questo modo contribuivano a impoverire il patrimonio della Chiesa. Riguardo a questa sua battaglia, Ariberto fu oggetto di un paradossale fraintendimento: Galvano Fiamma, cronista milanese trecentesco, affermò che l’arcivescovo aveva una moglie di nome Ussera, aprendo così presso gli sprovveduti storici del tempo un dibattito sulla coerenza morale di Ariberto. Ma Useria, questo il nome corretto, era in realtà solo una ricca matrona milanese che aveva donato un suo appezzamento di terra per costruire il monastero di S. Dionigi.

Il rafforzamento della supremazia ambrosiana
Alla morte di Enrico II, nel 1024, la feudalità italiana tentò nuovamente di imporre scelte autonome per l’elezione dell’imperatore, ma Ariberto sostenne subito il re di Germania Corrado II il Salico, precipitandosi a Costanza per rendergli omaggio. In cambio ottenne l’abbazia di Nonantola e il diritto di nominare il vescovo di Lodi. Inoltre invitò Corrado a farsi incoronare re d’Italia a Milano: la cerimonia si svolse nel 1026 nella basilica di Sant’Ambrogio e, forse, una seconda volta anche a Monza, con la corona ferrea. Ariberto attribuiva grande importanza ai cerimoniali sfarzosi, e per l’occasione riaprì le tombe di Sant’Ambrogio e di San Satiro e fece decorare con affreschi i sottarchi intorno al presbiterio e probabilmente qualche parete. Prelevato il frammento di una scapola dal corpo di San Satiro, lo trasportò nella basilica a lui dedicata, che riconsacrò: nell’ambito del rilancio del culto di San Satiro commissionò il coperchio della custodia dell’Evangeliario, oggi nota come Pace di Ariberto, un’opera di oreficeria nella quale compare San Satiro accanto al fratello Sant’Ambrogio, e un Sacramentario miniato.
A destra dell’imperatore
Il fiero arcivescovo accompagnò poi Corrado II a Roma per l’incoronazione imperiale sua e della moglie Gisela, fissata per il giorno di Pasqua (26 marzo 1027). Qui scoppiò una lite tra Ariberto e l’arcivescovo di Ravenna per chi doveva stare alla destra dell’imperatore. La spuntò Ariberto, che con Ravenna aveva motivi di lite più seri, perché l’arcidiocesi di Milano stava perdendo le diocesi dell’Emilia proprio a favore di Ravenna. Corrado confermò che il posto spettava all’arcivescovo di Milano, dal momento che aveva il privilegio dell’incoronazione regia.
Strategie di potere: il falso di San Barnaba
Per suffragare l’egemonia della Chiesa ambrosiana, Ariberto arrivò a produrre un falso documento che attestava la fondazione della Chiesa milanese da parte dell’apostolo Barnaba, prima della fondazione romana da parte di Pietro. Il falso, la Quaerimonia beati Benedicti, si presentava come il presunto discorso pronunciato nel 711 dal vescovo di Milano Benedetto per lamentare la sottrazione della diocesi di Pavia alla giurisdizione milanese, la cui supremazia era sostenuta in base al fatto che San Barnaba aveva assoggettato tutte le chiese dell’Italia settentrionale a quella di Milano. Sempre nel 1027, Ariberto nominò il vescovo di Lodi, che prima era di nomina imperiale e vassallo diretto dell’imperatore, mentre ora diventava vassallo dell’arcivescovo di Milano, con tutte le conseguenze. Milano avrebbe avuto così diretto accesso al Po e ai suoi affluenti nella Lombardia sud-orientale: un enorme vantaggio per i mercanti protetti dall’arcivescovo.
La fondazione di San Dionigi
La fondazione più prestigiosa di Ariberto fu il monastero che volle dedicare al vescovo milanese San Dionigi. Sorto accanto a una cappella paleocristiana con funzioni cimiteriali, il monastero ospitava dodici monaci e disponeva di uno xenodochio, ovvero una foresteria per ospitare i pellegrini e i forestieri. Il terreno venne donato dalla nobile Useria, trasformata dalla fantasia di Galvano Fiamma nella moglie dell’arcivescovo. Nel monastero venivano distribuite giornalmente 8 moggia di fave e 8.000 pani, per preparare i quali l’arcivescovo aveva messo a disposizione cinque suoi cuochi e stipulato una convenzione con altrettanti fornai. Il monastero fu distrutto nel Settecento per far posto prima ai giardini di Porta Venezia e poi al Museo di Scienze Naturali. All’interno della basilica si trovava il sepolcro di Ariberto, che fu trasportato in Duomo.

La ribellione dei valvassori e la prigionia
Nel 1034 Ariberto dovette lasciare la città per adempiere ai propri doveri di vassallo imperiale e combattere in Borgogna per Corrado II contro Oddone di Champagne. In questa occasione redasse un testamento nel quale sono citate le chiese e i principali monasteri della città, uno degli elenchi più antichi a nostra disposizione. Era tornato da poco quando a Milano e nel resto dell’Occidente scoppiò la ribellione dei feudatari minori o valvassori, che rivendicavano gli stessi diritti dei vassalli all’inalienabilità ed eredità dei feudi e si opponevano al potere di Ariberto. Sostenuto dal popolo, ma con l’ostilità di tutti i nemici che si era creato, come Lodi, Pavia e Cremona, Ariberto li affrontò nel 1036 a Campomalo. L’esito della battaglia fu pesante per entrambi gli eserciti. Nel gennaio 1037 Corrado II venne a Milano e fu accolto da Ariberto con grande sfarzo, come d’abitudine, ma il giorno dopo scoppiò un tumulto cittadino e Corrado II si rifugiò a Pavia, da dove aprì un giudizio contro l’operato di Ariberto. L’arcivescovo non ritenne di doversi giustificare e suscitò la collera dell’imperatore, che ordinò di arrestarlo. Però Ariberto era la personalità forse di maggior prestigio, dopo l’imperatore, e i soldati italiani si rifiutarono di eseguire l’ordine: dovettero eseguirlo le truppe tedesche al seguito di Corrado, che lo deportarono in una fortezza vicino a Piacenza. Per i milanesi fu una tragedia, ma organizzarono l’evasione del loro vescovo e, dopo un paio di mesi di prigionia, Ariberto riuscì a tornare a Milano.
Un crocifisso sull’altare e un vescovo “indegno”
Ariberto donò alla chiesa di San Dionigi un crocifisso che lo ritraeva ai piedi del Cristo con il titolo Aribertus indignus archiepiscopus, dove “indegno” era polemicamente riferito alla scomunica ricevuta da papa Benedetto IX, un ragazzino di 18 anni (eletto a 12). Ariberto era un fiero innovatore: era la prima volta che un crocifisso veniva posto sopra l’altare come parte integrante della celebrazione della messa.
La lotta contro l’imperatore e la scomunica
Il 19 maggio 1037 l’imperatore Corrado II attaccò Milano. L’assedio durò dieci giorni, durante i quali Benedetto IX, a Cremona con l’imperatore, confermò la scomunica di Ariberto. Il 28 maggio 1037, Corrado II emanò la famosa Constitutio de feudis, che sanciva l’ereditarietà dei feudi minori e la possibilità per i valvassori di appellarsi al potere centrale sovrano. Ariberto tentò un’ultima carta inviando suoi messaggeri a Oddone di Champagne, l’antico nemico di Corrado contro il quale lui stesso aveva combattuto, per offrirgli la corona d’Italia. Ma Oddone nel frattempo era morto e l’imperatore, venuto a conoscenza del tentativo, riprese le ostilità contro Milano. Il 26 marzo 1038 Ariberto venne deposto e sostituito dal canonico Ambrogio, contro il quale si scatenò l’ira dei cittadini, che devastarono i beni e le case che Ambrogio possedeva a Milano. Nell’estate 1038 Corrado II era rientrato in Germania, ma aveva lasciato ai suoi vassalli italiani il compito di annientare Ariberto.
L’invenzione del carroccio
Ariberto non si diede per vinto. Era sempre pronto a inventarsi qualcosa di nuovo e questa volta creò il carroccio: una lunga trave verticale era fissata a un robusto carro e portava in cima un pomo d’oro con due lembi pendenti di lino; a metà dell’asta si trovava una croce dipinta. Questo potente simbolo doveva guidare e confortare i milanesi nella battaglia, e garantirne l’invincibilità, in modo simile all’arca dell’alleanza degli ebrei. Per questo motivo, la perdita del carroccio, anche in seguito, era considerata una sciagura. Il carattere sacrale era evidenziato anche dal fatto che si presentava come un altare mobile sul quale svettava il crocifisso. Ma le cose presero un’altra piega: Corrado morì per un’epidemia di peste il 4 giugno 1039, lasciando suo erede il ventiduenne figlio Enrico III. Appena venne incoronato re di Germania, Ariberto gli offrì la corona d’Italia, che Enrico accettò con entusiasmo, visti i problemi che l’arcivescovo aveva creato in Italia. Venne revocata la scomunica di Ariberto e l’arcivescovo sostituto Ambrogio rinunciò alla sede milanese in cambio di quella bergamasca.

Lo scontro con Lanzone da Corte
A Milano intanto era scoppiata la rivolta dei mercatores, il ceto emergente, che si opponeva sia ai capitani che ai valvassori. La guidava il notaio e giudice di palazzo Lanzone da Corte. Nella primavera del 1040 Ariberto dovette lasciare Milano, che si era eletta a repubblica, e rifugiarsi nell’imperiale Monza, mentre la nobiltà cinse d’assedio la città per ben tre anni. Verso la fine del 1043, Lanzone chiese all’imperatore Enrico II il suo intervento a favore dei mercatores ed Enrico gli promise un presidio di 4000 cavalieri, in attesa di arrivare con il grosso dell’esercito a rimettere ordine in città. Nel timore che le truppe imperiali potessero creare danni peggiori alla città, già ampiamente provata, Lanzone decise di far rientrare i nobili in Milano, ponendo fine all’esperimento repubblicano.
L’esilio a Monza e la morte
In questo ribaltamento politico, l’unico a rimanere definitivamente escluso fu proprio Ariberto, che non poté più rientrare a Milano. Tenace come sempre, tentò di elevare la basilica di Monza a nuovo centro gravitazionale religioso, ma ormai la sua fibra apparentemente indistruttibile era compromessa. Nel dicembre 1044 Ariberto si ammalò gravemente e nel suo testamento incaricò i canonici di Monza di cantare ogni giorno tre messe: per la sua anima, per quella dei genitori e per l’imperatore Enrico III. Morì il 16 gennaio 1045 a Milano, dove aveva ottenuto di essere riportato. Il suo corpo venne sepolto, come desiderava, in un’arca a San Dionigi, poi trasferita, nel Settecento, in Duomo, dove si trova ancora oggi.
PER APPROFONDIRE – ARIBERTO: AMBIZIONE E VOLONTÀ
- Maria Grazia Tolfo, Ariberto d’Intimiano
- Ettore Verga, Storia di Milano, Meravigli Edizioni, Milano, 2015.
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In collaborazione con STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC