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ANDREA BRAIDO, UN FUNAMBOLO A SEI CORDE

ANDREA BRAIDO, UN FUNAMBOLO A SEI CORDE – In questa intervista, tracciamo un ritratto dell’uomo e dell’artista poliedrico che risponde al nome di Andrea Braido. Vero talento naturale e funambolo della chitarra (oltreché polistrumentista), Andrea vanta collaborazioni italiane e internazionali con i massimi nomi della musica contemporanea, nel solco del rock-blues.

Tu sei stato un bambino assolutamente precoce: all’età di 4 anni hai iniziato a suonare la batteria e, quando hai raggiunto i 12 anni, hai preso in mano la chitarra. Ci racconti qualcosa della tua infanzia da musicista?

La cosa curiosa è che io non ho avuto genitori musicisti: mio padre era sempre stato un grande appassionato di musica, mia madre era una pittrice. Quindi la mia propensione alla musica è nata spontaneamente. Quando insieme a mio fratello e mia sorella guardavamo in televisione i gruppi degli anni Sessanta e Settanta, io ne rimanevo sempre rapito, quindi spontaneamente iniziai a battere su oggetti che mi sembravano tamburi, anche se in realtà erano pentole. Mia madre mi costruiva batterie artigianali con oggetti di casa e mio padre si accorse subito che ero particolarmente portato per il ritmo. Iniziai a seguire i brani che mio padre ascoltava in casa e poi, a 8 anni, iniziai a suonare quotidianamente la batteria: andavo ad ascoltare i gruppi che si esibivano in una specie di sala prove in Trentino, da cui, anche se ero molto piccolo, appresi molto. Poi successe una cosa incredibile: iniziò a girare la voce che c’era questo bambino prodigio di 11 anni che suonava la batteria, così mi proposero di suonare in un gruppo di un paese vicino, che era alla ricerca di un batterista. Non me lo feci ripetere ed entrai a far parte di questo gruppo che suonava musica varia, da Mina alla Vanoni, dal liscio a Santana. Questo fu il mio esordio: si era appena avverato un sogno.

E come è nato l’interesse per la chitarra?

Mentre ero impegnato come batterista, il chitarrista del gruppo durante il tragitto per andare alle prove mi parlava spesso di chitarre e chitarristi: poi di Woodstock, di Hendrix, di Pete Townshend… tutti nomi che io non conoscevo. Ma era dotato di una passione tale che mi trasmise la curiosità di scoprire tutti i grandi della chitarra. Inoltre un mio caro amico pasticcere del Trentino, di dodici anni più grande di me, aveva una Fender Telecaster e mi suonò un pezzo di Hendrix. Quello fu un vero e proprio fulmine! Nel frattempo mia sorella portò a casa una chitarra e me la diede, perché non aveva il tempo per studiarla e poi mi disse che le corde le tagliavano i polpastrelli: da autodidatta, senza conoscere la musica, iniziai a strimpellare qualche nota. Quello che cercavo di fare era trasporre su chitarra tutta la musica che già conoscevo e accompagnavo con la batteria. E così mi ritrovai a 16 anni a suonare già in modo febbrile, dalle 8 alle 10 ore al giorno: andavo a scuola, ma avevo la testa orientata alla musica in modo totale, tanto da isolarmi dai miei coetanei, per rifugiarmi in un mondo solo mio fatto solamente di musica e arte. A 18 anni suonavo già con svariati gruppi trentini e avevo già approcciato il jazz.

E poi a 20 anni ti sei spinto fino a Boston e New York.

Sì, dopo il militare, mi si presentò l’opportunità di andare alla Berklee College of Music di Boston grazie a una sorta di borsa di studio: ci andai per qualche giorno, dove conobbi molti musicisti. Lì erano passati grandi artisti, come Steve Vai, John Scofield ecc. Un insegnante di chitarra del College un giorno mi disse: “Ti ho ascoltato e ti dico che se rimani qui, puoi incontrare molta gente famosa, però recati a New York e cerca di fare molte jam-sessions”. Presi il suo consiglio molto seriamente e partii per la Grande Mela. Ebbi l’opportunità di fare varie jam session per diversi mesi, solo che questa volta mi ritrovai di fronte un pubblico molto diverso da quello trentino! Qui dovevi sempre dare il massimo di te in poco tempo, perché ad ogni sessions potevi incontrare qualcuno interessato ad ingaggiarti per studio sessions, live ecc., cosa che comunque ho sempre fatto al di là del posto in cui mi trovavo!

Poi però ha fatto ritorno in Italia.

Ero ormai quasi convinto a rimanere là, poi però feci i conti con il fatto che vivevo isolato: gli unici momenti di aggregazione erano quando si mangiava e quando si beveva (molto); non c’era spazio per fermarsi a parlare: tutto era “super fast”, tutto in movimento e a un ritmo accelerato. Tra l’altro c’era anche un problema di natura razziale: a me piacevano le donne di colore e mi ci rapportavo con naturalezza e serenità. A quei tempi, però, non era tutto così “easy”. Anche se io non me ne rendevo conto, c’era ancora una netta divisione: i neri con i neri, i bianchi con i bianchi. Io non ero a mio agio in quel clima. Così tornai in Italia e iniziò per me un momento molto difficile: dalla realtà statunitense mi ritrovai di nuovo nell’intimità del Trentino, dove c’erano molti meno musicisti e mi sembravano tutti troppo rilassati e chiacchieroni rispetto a quelli d’oltreoceano. Per evitare di cadere in una crisi profonda, inizia a spostarmi un po’ al di fuori dall’area di Trento, e suonai con musicisti di Verona, Venezia, Genova, Milano e finii per fare la prima audizione per Patty Pravo. Poi saltò fuori una collaborazione con Baccini. Questo fu proprio il mio inizio nel campo della Pop Music.

Io sono rimasto sempre incuriosito dal tuo modo di suonare la chitarra: usi la mano destra in una maniera che non ho mai riscontrato in altri chitarristi. Ci parli della tua tecnica?

All’età di 7 anni, mio fratello mi regalò un coltellino di quelli che si richiudono su di sé: io, un pomeriggio, inciampai e cadendo mi recisi la falangetta del dito indice della mano destra. Erano tutti agitati per via della quantità di sangue che stavo perdendo, ma io non capivo tutto quel trambusto, perché era accaduto tutto così in fretta che praticamente non mi accorsi neppure del dolore. Quando poi fui portato all’ospedale, mio padre mi disse per tirarmi su di morale: “Tanto tu suonerai lo stesso la batteria”. La musica mi aveva scelto anche in quella drammatica circostanza. Quando iniziai a suonare la chitarra con il plettro, mi confrontai con numerosi chitarristi di Boston e New York che l’usavano: il suono in generale era molto simile tra i vari chitarristi, così decisi di iniziare a lavorare per costruirmi un sound personale, in modo tale da equipaggiarmi di una mia identità musicale ben precisa. Iniziai dunque a suonare senza plettro, utilizzando l’indice e il pollice della mano destra, poi aggiunsi il medio, quindi l’anulare e il mignolo. Quindi finii per usare la mano destra “a ragno”: questo mi consentì di avere una mia sonorità ben precisa e molto riconoscibile. Così io ancora oggi alterno l’indice (che ha questa radice di unghia molto dura, a seguito dell’incidente) a mo’ di plettro naturale ai polpastrelli delle altre dita, miscelando così suoni duri a suoni morbidi, con un’agilità che il plettro non ti può dare.

Prima hai accennato ai primi nomi noti del panorama musicale italiano, però il tuo palmarès artistico è ben più lungo e soprattutto annovera collaborazioni di respiro anche internazionale: Krawitz, Warwick, Lionel Richie, Liza Minnelli, e poi, a casa nostra, Zucchero, Vasco, Celentano, Mina, Patty Pravo, Jannacci, Branduardi… Hai qualche episodio curioso o per te importante da raccontarci?

Quando fui chiamato per suonare con Vasco, rimasero tutti stupiti dalla mia preparazione e forse un po’ spaventati: “uno così dove lo inseriamo?”. Pensavano fossi un cavallo pazzo, invece non era così: io volevo entrare in quella musica! E da lì nacque Fronte del palco, e ci fu un momento in cui tutti mi cercavano e molti altri nomi noti mi volevano a suonare con loro sia live che in studio. Dopo il tour con Vasco, mi chiamò Mina per fare un disco con lei (che però dovetti rimandare perché con Vasco c’era una sorta di esclusiva), poi fu la volta di Raf, Gatto Panceri… gli anni Novanta furono per me molto movimentati!

A proposito di movimento, ricordo che quando assistetti al live Gli spari sopra, in un momento di intermezzo, il palco si spogliò di tutti i musicisti, tranne due: Maurizio Solieri e Andrea Braido, che diedero vita a un “duello” funambolico all’ultima nota…

Sì, fu un duetto voluto proprio da Vasco, che voleva movimentare maggiormente il già adrenalinico tour.
A seguito de Gli Spari Sopra, partii in turnée anche con Ramazzotti e, in terra straniera, finii anche per suonare in tour con un bassista americano di Detroit: ero alla ricerca del modo migliore di esprimere il mio sound. Provai anche con il jazz, ma trovai un ambiente estremamente chiuso e poco disponibile a nuove collaborazioni con artisti che non ritengono provenienti dalla loro stessa estrazione musicale.

In effetti, jazz a parte, oggi non è certo una passeggiata, per un musicista che non sia sempre sulla cresta dell’onda, riuscire a farsi conoscere in Italia e a intavolare un buon rapporto con la comunicazione e i mass media, in modo tale da raggiungere un vasto pubblico.

Guarda, spesso trovo davvero imbarazzante come vengono trattati i musicisti dalla stampa: per lo più si parla di musicisti facendo prevalentemente riferimento a cantanti, per esempio. Musicisti e cantanti sono due professioni diverse: un cantante su dieci è forse anche musicista, ma la maggior parte dei cantanti (anche quelli bravissimi) non conosce la musica. Secondo me è un problema in seno alla categoria dei musicisti: stentano spesso a tirare fuori la propria personalità durante un concerto. Senza i musicisti, quale cantante salirebbe sul palco? Mi dispiace che spesso si sottovaluti il ruolo del musicista per tributare tutti gli allori ai soli cantanti, perché di fatto sono i front-man, le “prime donne”. Io ho sempre cercato di tirare fuori la mia personalità e quando eseguo un assolo o tutte le altri parti che devo suonare, certo non mi risparmio e cerco di dare il meglio!

Il grande drammaturgo Goethe scrisse riguardo al teatro: “Vorrei che il palcoscenico fosse sottile come la corda di un funambolo, affinché l’inetto non vi ci si arrischiasse sopra”. Ti trovi d’accordo con il suo pensiero, traslato nel campo della musica?

Assolutamente sì! Quando sali sul palco non puoi mai essere sicuro di niente: ogni volta è come se fosse sempre la prima. Pur essendo una materia che conosco bene da trent’anni, non so mai cosa succederà. Il bello della musica rock, jazz, blues è che puoi modificarla e riarrangiarla in modo diverso a ogni concerto, ma sei sempre sul filo del rasoio, perché anche se tutto fila liscio da un punto di vista tecnico, non è detto che funzioni per forza anche da un punto di vista emozionale. Conosco e apprezzo l’opera di Goethe, anche se le mie muse ispiratrici appartengono anche ad altri generi, come per esempio il cinema (sono un Kubrickiano d.o.c.). Ecco, a differenza di Kubrick, che era un perfezionista maniacale, io sono fondamentalmente un impulsivo, anche se con gli anni ho imparato a smussare con lo Yoga il mio lato animalesco.

Anche la tua discografia è ben nutrita: a partire dal 1991 con “Eleonor”, hai prodotto 15 dischi da solista, e l’ultimo, “Andrea Braido Band plays Deep Purple & Rainbow” del 2015, con la tua “Andrea Braido Band”. C’è qualche titolo o qualche brano che ami in particolar modo e che ti riconduce a sensazioni ed emozioni indimenticabili?

Nel corso della mia carriera ho prodotto dischi stilisticamente molto diversi tra loro, dal funky alla musica etnica, dalla classica al rock, ma sono molto legato a “Braidus in Funk”, che mi vede coinvolto come polistrumentista, autore e compositore di tutti i brani. Questo album è nato a seguito di una collaborazione con Marcus Miller, che mi chiamò per eseguire alla chitarra un suo brano. Poi sono molto legato al disco dal vivo in cui mi cimento con la musica di Hendrix, “Braido Plays Hendrix”, e a “Dai Beatles a Jobim passando per…”, che è molto vario al suo interno ed è tutto acustico, senza batteria né percussioni. Ogni mio disco è una storia a se stante e per me importante: personalmente credo che non bisogni mai dimenticarsi del proprio vissuto, passato e presente. Tutto rivive sotto forma di nuove ispirazioni.

Oltre a collaborazioni e progetti personali, hai anche un canale youtube che aggiorni di frequente: oltre a pubblicare pezzi che esegui in solitaria, da poco hai iniziato a pubblicare video-lezioni di chitarra. So che normalmente non impartisci lezioni private, ma preferisci dedicarti a stage collettivi itineranti.

In passato ho avuto degli allievi privati che mi hanno seguito per qualche anno, però è piuttosto difficile incontrare allievi che siano realmente intenzionati a investire le proprie risorse: si tratta di investimento e dedizione, e devi essere pronto ad apprendere una dura disciplina. La mia attività su youtube è nata per scherzo, ma ha finito per darmi grande visibilità agli occhi di chi mi vuole seguire da tutto il mondo. Ho iniziato da poco a spiegare nel dettaglio alcune mie parti di chitarra molto popolari: ho iniziato con Stupendo di Vasco, uno dei brani che più mi rappresenta in quel periodo. Sono inoltre molto attivo anche sulla mia pagina Facebook, dove posto video casalinghi fatti con l’iPhone che riscuotono un grande interesse.

Siamo alla fine: cosa riserva il futuro prossimo di Andrea?

Ci sono nuovi progetti all’orizzonte, uno per esempio dedicato al rock, che conterà metà brani inediti e metà cover in una formazione ristretta, il trio, quella che preferisco. Vorrei aggiungere una cosa: molti musicisti di fama internazionale, del passato come del presente, hanno potuto godere dell’intervento provvidenziale di mecenati o manager davvero in gamba intenzionati a investire in persone talentuose; io non ho mai incontrato una simile figura nella mia vita artistica, una persona intenzionata a investire nella musica. Non mi dispiacerebbe prima o poi incontrarne una simile per riuscire a riscattare una certa visione della musica, che si fa sempre più industriale e sempre più pilotata a discapito del talento naturale dei veri artisti. B.B. King, per esempio, suonava in un’area ristretta in prossimità del Mississippi, poi un giorno incontrò un manager capace, che gli chiese quale fosse il suo scopo nella vita. King rispose: “Portare il blues nel mondo”. Chissà che prima o poi, magari, non capiti anche a me di incontrare un persona così!


GALLERY ANDREA BRAIDO, UN FUNAMBOLO A SEI CORDE


VIDEO ANDREA BRAIDO, UN FUNAMBOLO A SEI CORDE

  • Andrea Braido Live Genova

  • Andrea Braido Acoustic duo – Come Together (The Beatles)

  • Andrea Braido – Giant Steps (John Coltrane)