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Altdorfer, Patinir e la nascita del paesaggio moderno

Altdorfer, Patinir e la nascita del paesaggio moderno

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Altdorfer, Patinir e la nascita del paesaggio moderno

Scrive Eugenio Turri, in “Antropologia del paesaggio“, che l’arte «costituisce una delle attività con cui l’uomo scopre e annette il paesaggio alla cultura». È proprio grazie all’arte pittorica che prende forma il significato moderno di paesaggio, a partire dalla declinazione rinascimentale, che ne fa lo scenario prospetticamente organizzato delle azioni umane, per poi passare ai landschap fiamminghi, in cui il paesaggio diventa protagonista dell’opera, fino ai “paesaggi sentimentali” del romanticismo.

Il paesaggio emerge quando un soggetto si pone di fronte al mondo e incornicia ciò che si dispiega davanti ai suoi occhi. Esso non è una entità in sé, ma si costituisce nel rapporto fra lo sguardo umano e lo spazio circostante. Senza quello sguardo, la natura rimarrebbe un panorama muto, privo di quella dimensione psicologica che è parte integrante del paesaggio. Questo rapporto, essendo fondato su un elemento soggettivo, risente pertanto dei mutamenti culturali, storici ed etici, sviluppandosi lungo una dimensione diacronica; esso costituisce una nozione estremamente dinamica poiché modifica incessantemente le sue forme e i suoi contorni.

Dopo la pittura dell’età romana, per più di mille anni lungo tutto il Medioevo, scompare dall’arte occidentale la rappresentazione di paesaggi naturali. Nel corso di questi secoli la natura è avvertita come un nemico da cui difendersi, un’entità ostile o tentatrice da domare e governare.
Nella pittura del Rinascimento il protagonista della scena è l’uomo. Molto spesso viene rappresentato immerso in un paesaggio, ma quest’ultimo è quasi sempre poco più di una cornice all’interno della quale la figura umana costituisce il fulcro centrale, principio ordinatore e «misura di tutte le cose».
Verso la fine del Cinquecento si rompe l’unità «umanistica» rinascimentale e il centralismo antropologico che la caratterizzava; contemporaneamente la figura umana comincia a scomparire dalle tele e nello stesso tempo si affermano come autonomi diversi generi pittorici che hanno come protagonisti dei soggetti diversi dalla storia umana, come il paesaggio e la natura morta. L’attenzione si sposta, insomma, dall’uomo alle cose inanimate, che diventano così specchio della condizione dell’artista, proiezione del suo mondo interiore.
Importante è senza dubbio, in questo processo, l’influenza degli autori fiamminghi cinquecenteschi, maestri nella riproduzione fedele e particolareggiata dei luoghi e degli oggetti.

Albrecht Altdorfer, Paesaggio con un ponte, 1518 circa, tavola, Londra, National Gallery - Public Domain via Wikipedia Commons
Albrecht Altdorfer, Paesaggio con un ponte, 1518 circa, tavola, Londra, National Gallery – Public Domain via Wikipedia Commons

Per cercare la sorgente del paesaggio «puro» bisogna andare in Germania, patria di quel grande Albrecht Dürer che tanta attenzione aveva dimostrato nei confronti della natura.
I primi casi di paesaggi privi di figure umane sono quasi certamente da identificarsi con il “Paesaggio con ponte”, databile 1518-20, e con il “Paesaggio danubiano”, di qualche anno posteriore, entrambi dipinti da Albrecht Altdorfer (1480 ca. – 1538), uno dei protagonisti della Scuola danubiana.
Soprattutto nel secondo, che vediamo nell’immagine sottostante, abbiamo davanti una natura agitata e palpitante, lontana dai placidi paesaggi delle pitture veneziane che ispiravano calma e contemplazione. Qui, il paesaggio è sentito come organismo vivente, insidioso per la sua solitudine, inquietante, dominato dalle forze naturali contro cui poco o nulla vale l’uomo, non più centro dell’equilibrio cosmico e signore dell’universo, ma da esso espunto o ridotto ad elemento accessorio. La vegetazione che si agita sulla tela è nordica, aspra, scura e selvaggia, lontana dalle aperte e distese campagne coltivate della pittura italiana; l’atmosfera è languida, silenziosa e solitaria, densa di suggestioni simili a quelle che ritroveremo qualche secolo dopo, in pieno Romanticismo.

Albrecht Altdorfer, Paesaggio danubiano, 1520-25 ca., Alte Pinakothek, Monaco - Public Domain via Wikipedia Commons
Albrecht Altdorfer, Paesaggio danubiano, 1520-25 ca., Alte Pinakothek, Monaco – Public Domain via Wikipedia Commons

Qui per la prima volta la figura umana è scomparsa dalla rappresentazione e la natura è assurta al rango di realtà espressiva autonoma.
Queste opere di Altdorfer sono considerate i primi esempi di paesaggio “puro” della storia dell’arte, se escludiamo le prove su disegno e ad acquerello di Leonardo e Dürer.
Anche dove rimane una presenza umana, come nell’opera “San Giorgio nella foresta”, essa appare poco più di un semplice pretesto, confinato al margine inferiore della tavola, per rappresentare la magia inquietante e aspra di una foresta primordiale, intricata e selvaggia, che incombe su un uomo piccolo ed esposto alle forze oscure della natura, capovolgendo il rapporto tradizionale tra i due termini.
La grande novità è che i paesaggi rappresentati non servono per dare sfondo, per collocare spazialmente e temporalmente e per illustrare storie, miti o parabole, ma con il solo proposito di esaltare il fascino misterioso della natura. Quest’ultima diventa la vera protagonista del dipinto.
In questa opera, di qualche anno precedente, la figura del San Giorgio a cavallo quasi scompare nel groviglio di vegetazione che la sovrasta. Qui è palese come, in queste rappresentazioni, l’uomo non è più signore dell’universo e misura di tutte le cose.

Albrecht Altdorfer, San Giorgio nella foresta, 1510 - Public Domain via Wikipedia Commons
Albrecht Altdorfer, San Giorgio nella foresta, 1510 – Public Domain via Wikipedia Commons

Uno dei più rilevanti contributi alla nascita del paesaggio moderno come genere autonomo viene da uno straordinario autore fiammingo del Cinquecento, poco conosciuto ai nostri tempi ma molto apprezzato nella sua epoca, Joachim Patinir (che si firma Patinier).
Questo pittore riesce, come pochi, ad evocare l’immensità, la magia e la bellezza della natura, dentro la quale la figura umana ha perso la sua centralità. Sebbene i suoi dipinti abbiano temi religiosi comuni al Rinascimento Nordico, tuttavia egli è uno dei primi pittori a rendere i suoi paesaggi, così dettagliati e visivamente affascinanti, più importanti delle figure presenti nella scena.

Joachim Patinir, Caronte attraversa il fiume Stige, 1524, Museo del Prado - Public Domain via Wikipedia Commons
Joachim Patinir, Caronte attraversa il fiume Stige, 1524, Museo del Prado – Public Domain via Wikipedia Commons

Il dipinto “Caronte attraversa il fiume Stige” non è un’opera devozionale e probabilmente è stata commissionata da un ricco commerciante collezionista d’arte. Il quadro è suddiviso in tre parti verticali: quella centrale è occupata dal fiume Stige. A sinistra, un paesaggio naturale, con boschi, un lago e montagne sullo sfondo, a destra una vista in parte lugubre e sinistra, dominata dal fuoco in lontananza: due territori opposti sia spazialmente che simbolicamente, perché si è convenuto di identificare il primo con il Paradiso e il secondo con l’Inferno.
Il nostro sguardo è subito attratto dalla barca al centro del fiume. Il barcaiolo è Caronte, il vecchio nocchiero che traghetta le anime dei morti nell’aldilà, dove il cane a tre teste dalla coda di drago, Cerberus, fa la guardia, permettendo alle anime di entrare in quel luogo, ma impedendo loro di uscirne. Possiamo vederlo rannicchiato nella sua tana davanti alle porte dell’Inferno.
Con Caronte viaggia una sola, piccola anima, che guarda verso il lato destro, come attratta da quello spettacolo, mentre sull’altra sponda del fiume vediamo alcuni angeli che accompagnano altre anime, in un giardino dove ci sono pavoni e cigni e altre specie di animali. Su una piccola altura, un angelo indica con la mano la strada per entrare in Paradiso, un’entrata impervia, rocciosa, più difficile di quella che porta nel territorio opposto. In lontananza, una fontana della vita, che ricorda i paradisi di Bosch.
Ma perché l’anima guarda verso l’entrata dell’inferno? Perché non mostra nessuna espressione di spavento? Come mai sullo sfondo del paradiso vediamo un profilo urbano? Perché nella parte destra, in primo piano, vediamo un paesaggio verdeggiante, con uccelli svolazzanti, tanto simile al paesaggio di sinistra (sebbene la presenza di una scimmia riveli la natura “malefica” del luogo)? Neanche i colori usati depongono a favore di una visione nettamente dualista, in quanto, a parte il paesaggio in fiamme sul fondo di destra, c’è una predominanza complessiva di colori freddi. Forse questo quadro, allora, non vuole darci, come a prima vista avevamo creduto, una rigida visione manichea della vita, cornice di un messaggio moralizzatore. Forse questo dipinto è più complesso di quanto avevamo creduto.
Innanzitutto, la nota più evidente è che questa è la prima opera di tutta l’arte occidentale con Caronte come personaggio centrale. Protagonisti non sono gli angeli, o i diavoli, o le anime dei dannati o dei beati, ma il traghettatore, colui che percorre in eterno il fiume, la strada che separa, o mette in comunicazione, mondi diversi. Caronte è colui il cui viaggio non finisce mai, e questo è un perenne avanti e indietro tra le sponde di un fiume. Altra meta gli è preclusa.
Un altro elemento che più colpisce è la strana calma che avvolge quest’opera immobile e perfettamente fuori dal tempo. Patinir è altresì l’iniziatore del grande paesaggio “a volo d’uccello”, o ancora “panoramico”, o “cosmico”, con una prospettiva ampia e molteplici punti di vista.

Joachim Patinir, Battesimo di Cristo, 1515, Kunsthistorisches Museum, Vienna - Public Domain via Wikipedia Commons
Joachim Patinir, Battesimo di Cristo, 1515, Kunsthistorisches Museum, Vienna – Public Domain via Wikipedia Commons

Occorre soffermarsi su quest’ultimo punto. Questi paesaggi non sono geograficamente accurati, ma costituiscono sempre un compromesso tra la realtà e la fantasia dell’artista. Il pittore mette insieme vari elementi, come città, montagne, fiumi, rocce, foreste e compone un paesaggio ideale come presentazione complessiva dell’universo. Qui si può ben dire che quello di Patinir è un Weltlandschaft, cioè un paesaggio del mondo. Esso può definirsi come una compilazione immaginaria degli aspetti più interessanti e spettacolari di elementi geografici, presentati su più piani in sequenza, che sondano la profondità dello spazio fino a un orizzonte lontano. Questo paesaggio non è altro che il farsi avanti dell’ordine del mondo a partire dalle lontananze. Esso è ripreso da un punto di vista alto, quasi fosse l’occhio stesso di Dio.

Joachim Patinir, Riposo durante la fuga in Egitto, particolare, 1520 ca. - Public Domain via Wikipedia Commons
Joachim Patinir, Riposo durante la fuga in Egitto, particolare, 1520 ca. – Public Domain via Wikipedia Commons

Pur prendendo spesso spunto dal paesaggio del territorio nei dintorni di Anversa, la creazione di Patinir rimane sempre altamente intellettuale: le sue composizioni seguono uno schema a piani digradanti, sottolineati dal trapasso dal tono scuro del primo piano al chiarissimo del fondo; i colori sono pure irreali e fantastici, con una spiccata preferenza per i toni del verde-blu. La scansione cromatica ci trasmette il senso della variabilità atmosferica: le rocce trapassano dal grigio al rosa, i verdi brillano quando imbevuti di luce mentre rimangono cupi negli angoli e nel fondo dei boschi dove non arriva il sole.
Tali paesaggi non descrivono luoghi reali, ma sono artificialmente costruiti mettendo insieme descrizione e immaginazione. Per questo essi rivelano di più del pittore, de suoi sentimenti e stati d’animo, che della natura medesima. Si tratta insomma di un paesaggio soggettivizzato.

Joachim Patinir, San Cristoforo trasporta il Bambin Gesù (1520 circa) - Public Domain via Wikipedia Commons
Joachim Patinir, San Cristoforo trasporta il Bambin Gesù (1520 circa) – Public Domain via Wikipedia Commons

Non più principio di tutte le cose, l’uomo non è che un atomo in un universo che lo sovrasta, anche se quest’atomo fa ancora parte del tutto. I personaggi della scena, sebbene la loro vicenda dia il titolo all’opera e siano quindi primari per quanto riguarda il tema pittorico, sono tuttavia secondari riguardo allo spazio e alla forma. E nonostante occupino spesso il centro della scena, essi ci appaiono ridotti al rango di poco più di un pretesto per raccontare la bellezza di una natura cosmica ricreata dall’immaginazione dell’artista.

Joachim Patinir, San Girolamo in un paesaggio roccioso, 1520, National Gallery, Londra - Public Domain via Wikipedia Commons
Joachim Patinir, San Girolamo in un paesaggio roccioso, 1520, National Gallery, Londra – Public Domain via Wikipedia Commons

Di tutti i dipinti di Patinir con protagonista San Gerolamo, questo conservato alla National Gallery di Londra è senza dubbio il più spettacolare. Esso mostra un drammatico e tormentato paesaggio di rocce affilate e aguzze e cieli minacciosi.
Il santo è presentato come un eremita vestito di stracci che, in una piccola capanna, è intento a rimuovere la spina dalla zampa del leone.
Molto si è scritto a proposito delle rocce presenti nei dipinti di Patinir, dalla forma di grandi schegge e che sembrano appena violentemente emerse dal sottosuolo. Qualche studioso ha ipotizzato che l’artista si sia ispirato a Leonardo (ad esempio alle formazioni rocciose presenti ne La Vergine delle rocce); altri hanno supposto che il pittore usasse come modelli dei piccoli pezzi di roccia. Si è parlato anche di biomorfismi, dove per formazioni biomorfe si intendono masse rocciose, ricoperte o no da vegetazione, rappresentanti una forma umana, animale o mostruosa, totale o parziale.
La scansione (e opposizione) tra zone brulle e erbose, tra zone cupe e illuminate, fa propendere per una interpretazione morale del paesaggio. La presenza di proliferazioni rocciose dalle forme a volte misteriose può essere letto al di là di una funzione esclusivamente estetica, ma come frutto di una pratica compositiva che assegna alle zone rocciose un ruolo metaforico. Alcuni studiosi hanno affermato che nella caratteristica ambientazione naturale patiniriana si svolge o è sotteso un percorso eremitico: il viandante o il santo raffigurato, immerso nella natura, rifugge dalle strade piane e agevoli e si inerpicano spiritualmente verso vie tortuose e virtuose.

Joachim Patinir, Landscape with The Flight into Egypt - Public Domain via Wikipedia Commons
Joachim Patinir, Landscape with The Flight into Egypt – Public Domain via Wikipedia Commons

Il paesaggio sarebbe dunque metaforico, una guida verso un pellegrinaggio di tipo mentale. In questo senso viene interpretata la presenza di elementi geografici oppositivi (l’aerea montuosa e inospitale con strade tortuose e impervie da una parte, la ridente vallata dall’altra). La vicenda eremitica del santo si amplia così per accogliere un messaggio sulla salvezza dell’anima, ottenibile inoltrandosi in sentieri non agevoli, scegliendo strade virtuose e non quelle ingannevolmente confortevoli.
Si noti che il punto di vista è sempre alto e che la composizione spaziale poggia su più moduli costruttivi che si susseguono dal primo piano all’orizzonte, evidenziati da un progressivo schiarimento cromatico.

Joachim Patinir, Landscape with St Jerome, 1515-1519, Museo del Prado, Madrid, Spain - Public Domain via Wikipedia Commons
Joachim Patinir, Landscape with St Jerome, 1515-1519, Museo del Prado, Madrid, Spain – Public Domain via Wikipedia Commons
Joachim Patinir, Landscape with the Destruction of Sodom and Gomorrah - Public Domain via Wikipedia Commons
Joachim Patinir, Landscape with the Destruction of Sodom and Gomorrah – Public Domain via Wikipedia Commons
Joachim Patinir, San Gerolamo nel deserto, c.1520, The Louvre Museum, Paris - Public Domain via Wikipedia Commons
Joachim Patinir, San Gerolamo nel deserto, c.1520, The Louvre Museum, Paris – Public Domain via Wikipedia Commons

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